La parola di oggi è misoginia. Senza girarci intorno. È un termine che oggi più che mai cavalca la cresta di un’onda sociale che ci trascina indietro di decenni, in un gorgo che puzza di bieco maschilismo.
Gli esempi di quanto questo atteggiamento di avversione nei confronti della donna si stia prepotentemente riaffermando nella nostra società, purtroppo non mancano. Ormai quasi quotidianamente si registrano episodi di attacchi nemmeno più velatamente misogini, come se l’odio verso le donne fosse ormai sdoganato e, purtroppo, anche molto tollerato.
Carola, Silvia, Teresa. Solo per citare alcuni dei nomi che più di altri in queste settimane sono stati al centro di attacchi maschilisti, denigratori e misogini. Il comune denominatore di questo atteggiamento è la denigrazione della donna, lo svilimento della sua dignità di persona. Alla componente misogina si accompagna spesso quella razzista e discriminatoria.
Il copione, per certi versi, sembra essere sempre lo stesso. Vengono prese di mira quelle donne che si distinguono per una scelta di vita, per affermazioni e atteggiamenti, che paiono in contrasto con una cultura dominata dal maschio. Se la donna intraprende determinate attività, o si permette di “deviare” dal sentiero che la società maschilista le ha riservato, allora automaticamente finisce nel mirino degli odiatori seriali, quelli che non si risparmiano nello sfoderare un vocabolario farcito di volgarità e oscenità.
Prendiamo il caso della cooperante Silvia Romano, recentemente liberata dopo diciotto mesi di prigionia nelle mani dei terroristi di Al Shabaab in Somalia. Cosa ha urtato di Silvia nelle coscienze (semmai ne avessero una) di tutti coloro che le si sono scagliati contro non appena scesa da quell’aereo? Il suo sorriso? L’abbigliamento? L’essere tornata a casa sana e salva dopo che “se l’era andata a cercare”? La vicenda che ha interessato la giovane Silvia è davvero emblematica dell’ondata misogina che sta attraversando la società italiana in questi tempi. Silvia è giovane e dopo la laurea, invece di trovarsi un qualsiasi lavoro nella sua cosmopolita e moderna Milano, decide di partire per andare in Africa ad aiutare i bambini vulnerabili. A casa loro! E già qui c’è un primo segnale di anormalità rispetto al cliché che i benpensanti medievali le hanno riservato. Ma non basta. Viene rapita e sequestrata per diciotto mesi, durante i quali, inchiodata in una prigionia di cui non possiamo nemmeno immaginare la durezza, si aggrappa all’unico libro che ha a disposizione, il Corano, e lì, giorno dopo giorno, trova un suo personale conforto. Si converte all’Islam e candidamente lo ammette non appena pesta il suolo patrio. Questa è davvero imperdonabile per i leoni da tastiera che azzannano con le loro volgarità la povera Silvia. Il nostro Paese ha dovuto sborsare quattro milioni di euro per liberare una terrorista islamica. Cose da pazzi. E si è pure permessa di tornare a casa avvolta in una palandrana che la copre dalla testa ai piedi. Dove sono finite le minigonne e i tacchi a spillo? Non c’è più religione.
Ebbene Silvia rappresenta iconicamente tutto quello che le donne non dovrebbero fare. Scegliere una strada diversa da quella che la società ci ha riservato da secoli. Parlare liberamente della sua sfera intima e spirituale. Scegliere l’abito che più la rappresenta in quel momento o che la fa sentire bene. E tutto questo giustifica l’enormità della valanga di nefandezze che le sono state vomitate addosso. Ma, a ben guardare, tutto questo è successo per un solo ed unico motivo: perché Silvia è una donna. E ce lo dimostra il fatto che altri nostri connazionali, di sesso maschile, sono stati liberati da prigionie simili a quella di Silvia, sono tornati convertiti all’Islam e con un abbigliamento non esattamente occidentale, eppure nessuno ha avuto nulla da ridire, né sul piano religioso (che poi attiene alla sfera più personale dell’essere umano) né su quello del riscatto pagato per la liberazione, né tantomeno su quello dell’aspetto fisico. Silvia è una donna e come tale va attaccata perché non si è comportata come avrebbe dovuto. O come avrebbe voluto una fetta della nostra società che tenta ripetutamente di riportarci indietro di secoli, a quell’oscurantismo del predominio maschile al quale le donne hanno iniziato a ribellarsi decine e decine di anni orsono e al quale non sono affatto intenzionate a soccombere di nuovo.
Un atteggiamento misogino farcito di smania di controllo: il controllo del corpo delle donne, che decide come si devono vestire (o svestire); il controllo del pensiero delle donne, che decide cosa è giusto che una donna dica e cosa no; il controllo della sfera privata, addirittura quella spirituale, che decide quale religione va bene e quale invece no.
Ma oltre al caso di Silvia, si registrano quotidianamente episodi di violenza genericamente intesa nei confronti delle donne. Se un giornale pubblica un titolo che recita “Il marito ubriaco picchia la moglie senza motivo” implicitamente si giustifica la violenza fisica dell’uomo sulla donna perché c’è un motivo. Ecco dunque che la misoginia si insinua, anche in maniera strisciante, nelle pieghe di una società che deve ripensare se stessa, a cominciare dal contesto scolastico nel quale il rispetto di genere deve diventare un principio fondamentale. Bisogna educare i giovani al rispetto reciproco, indipendentemente dal sesso, e, naturalmente, dal colore della pelle e dalla religione praticata. Dobbiamo tornare all’abc di quel principio di uguaglianza sancito dalla nostra Costituzione e troppo spesso negato e disatteso.
Una strada che si è fatta di nuovo stretta e difficoltosa, ma che va necessariamente percorsa, dalle donne e dagli uomini che vogliono realmente tornare a fare della società italiana una società plurale e rispettosa della dignità umana.
uploads/images/image_750x422_5ec1394248439.jpg
2020-05-24 19:06:23
49