L'EX AGENTE PENITENZIARIO. Il suo curriculum potrebbe portare in questa direzione (pentimento di Stato). Riggio fu arruolato nel luglio del 1990 e destituito con decreto del Dap del 2 agosto del 2001, con efficacia retroattiva al 10 novembre 1998. Data nella quale fu arrestato da parte dei carabinieri di Caltanissetta nell'operazione “Grande Oriente”.
In seguito a questo arresto è stato detenuto a Santa Maria Capua Vetere, dal 10 novembre 1998 al 7 aprile 2000.
Una volta scarcerato dalla struttura militare, nella quale era detenuto perchè appartenente alla polizia penitenziaria, fu sottoposto agli arresti domiciliari dal 7 aprile 2000 al 27 settembre 2000 ed ancora in detenzione domiciliare dal 12 dicembre 2001 al 30 ottobre 2001. In questo caso è stato accertato, i riscontri sono arrivati dalle indagini svolte dalla dottoressa Giustolisi della squadra mobile di Caltanissetta (mandato ricevuto dalla Corte per effettuare i riscontri su quanto Riggio stava dichiarando), che avesse un'autorizzazione a uscire da casa dalle ore 9 alle ore 11.
Ed è proprio in questo periodo, maggio del 2000, che entra a far parte formalmente della famiglia mafiosa di Caltanissetta occupandosi delle estorsioni.
Il suo è un ruolo marginale anche perché, come lui stesso ha raccontato nei vari procedimenti che lo vedono coinvolto, non essere mai stato oggetto del rito di affiliazione, la famosa “punciuta”. Riggio fu poi arrestato nel 2004 nell'ambito dell'indagine “Bobcat Itaca”.
Subì quindi un altro periodo di detenzione presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere dal maggio 2004 al marzo 2008. Fu poi colpito nuovamente da un fermo di polizia giudiziaria nel luglio del 2008 ed è questa la data dalla quale decide di collaborare con la giustizia.
Perché non decise, visto il suo ruolo secondario, di collaborare subito? L’ha spiegato lo stesso Pietro Riggio: si è sentito pronto nel parlarne dopo aver finalmente assistito alla sentenza di primo grado sulla trattativa.
E, da quel momento, Riggio di cose ne ha raccontate sino a garantirsi il premio come migliore Deep Throat, proveniente dagli ambienti mafiosi.
La quantità di argomenti toccati dalle sue dichiarazioni, di fatto, snaturano l’impianto originale accusatorio sulla trattativa, perché non sarebbero stati infedeli solo gli ex Ros finiti sotto processo, ma anche la Dia e non solo.
Alcune delle dichiarazioni hanno riguardato anche la strage di Capaci, perché, a quanto da lui dichiarato, la sua organizzazione avrebbe visto in primo piano anche i servizi segreti libici e che non sarebbe stato Giovanni Brusca a premere il telecomando che ha innescato il tritolo, ma questo concorderebbe con la tesi di “etero direzione” già indicato dal dottor Di Matteo.
Dalle sue rivelazioni sembrerebbe che il telecomando sia stato premuto da poliziotti che collaboravano con i servizi segreti.
La verità, in questo momento, è che i riscontri non ci sono e che, soprattutto, molti cominciano a chiedersi come un semplice “soldato” addetto alle estorsioni possa essere stato il destinatario di tante e tali confidenze, in un apparato in cui il segreto ha sempre riguardato non solo il rapporto con i semplici soldati ma anche con gli uomini d’onore.
Secondo il Riggio a organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati i servizi segreti libici il cui commando era composto da una donna, dal suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso e da un non meglio identificato Nasser, che sembra essere un medico ed ex pugile egiziano.
L’altro nuovo elemento introdotto da Riggio è che la Dia lo avrebbe utilizzato per far finta di catturare l’ex boss dei boss Bernardo Provenzano.
L’organizzatore di tutto ciò sarebbe stato un certo zio Tony, che secondo Riggio fa di nome Antonio Miceli, che lavorava per la Cia.
Tramite gli accertamenti eseguiti dalla squadra mobile di Caltanissetta si è scoperto che esiste ma il suo nome non risulta essere Antonio Miceli ma Antonio Mazzei.
Un ex delinquente di bassa lega che era stato effettivamente convocato dalla Dia perché, secondo le risultanze, sia lui che lo stesso Peluso, l’ex poliziotto che Pietro Riggio ha conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e che gli avrebbe rivelato le indicibili verità di cui oggi parla, avrebbero detto di essere in grado di poter arrivare alla cattura di Provenzano.
In questo caso il riscontro fu immediato e fu lo stesso colonnello Pellegrini della Dia che constatò che si trattava di truffaldini e millantatori.
Pietro Riggio risulta essere stato un confidente e avrebbe fornito elementi utili ai carabinieri ad individuare una talpa all’interno della Procura di Caltanissetta. Non solo.
Avrebbe anche aiutato a capire le dinamiche di Cosa nostra nissena e dato informazioni su tentativi di estorsione nel territorio.
Proprio su questo, il prossimo 11 gennaio saranno sentiti al processo i due colonnelli della Dia, Angiolo Pellegrino e Alberto Tersigni, che avevano gestito Riggio e appurato le millanterie di Peluso e del napoletano “zio Tony”.
Da un lato, quindi, Pietro Riggio, un uomo al soldo della compagine mafiosa e dall’altro un ex poliziotto, Peluso, che parla con tutti e che si vanta di far parte di qualcosa di più grosso. Riggio, in realtà, non fa altro che rivelare alle autorità tutto ciò che Peluso gli ha raccontato, molto spesso condito con dettagli errati.
Di fatto il Peluso, a proposito delle lettere criptate che mandava a Riggio, ha dovuto ammettere che parlava di traffico di droga per poter racimolare qualche soldo insieme.
Ma, ancora una volta, questa potrebbe essere una delle tante finte verità che affollano il processo. Il sospetto è che l’ultima parte del processo sulla trattativa si stia concentrando su qualcosa che non esiste. O meglio, millantato.
Come si legge nell’informativa della Dia di Palermo, una fonte rivela ai carabinieri che “non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di Cosa nostra, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola”.
La fonte, inoltre, dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di “tale Peluso Giovanni, ex poliziotto, che proprio in questi giorni avrebbe preso la dimora a Catania presso persone compiacenti e si sarebbe recato più di una volta a Palermo, servendosi di mezzi pubblici”.
Potrebbe essere questo il contesto in Peluso ha parlato a Riggio di un attentato ai danni del l’ex giudice Leonardo Guarnotta? Non è certo.
Fatto importante è che, sin dalla prima informativa, si evince che Peluso avesse come precedenti penali lo sfruttamento della prostituzione e la truffa.
Questo ultimo reato è stato un campanello d’allarme per Grasso, tant’è vero che, come si evince dalla lettura dell’informativa, ha concordato l’avvio delle indagini preventive “con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte”.
Al termine delle indagini questo dubbio è stato confermato.
Si legge che “il linguaggio criptato di talune conversazioni telefoniche, il ricorso a millanterie e frasi di convenienza, nonché i suoi trascorsi, lascerebbero propendere per il coinvolgimento del Peluso in attività illecite di tipo truffaldino, i cui elementi, tuttavia, non è dato comprendere”. Peluso è quindi risultato essere il tipico millantatore per trarre profitto economico personale.
È possibile che Pietro Riggio abbia davvero preso per vero tutto ciò che Peluso e compagni gli hanno prospettato e raccontato?
Il suo racconto è comunque pieno d’incongruenze e, alla fine, qualcosa non torna.
Come nel caso del suo racconto relativo all’incontro con Giovanni Aiello, il famigerato “faccia da mostro”, che arrivò con una Bmw alla cui guida ci sarebbe stata una donna, Marianna Castro, di origine libiche ed ex compagna di Peluso.
Riggio racconta che la Castro sarebbe scesa dalla macchina e che indossava pantaloni mimetici. La Castro, fervente seguace del defunto guru indiano Sai Baba, dice però tutt’altro durante il suo interrogatorio. Come, ad esempio, che non si trattava di una Bmw ma di una Lancia Delta e che non sarebbe mai scesa da quella macchina oltre ad indossare abiti normali.
Pietro Riggio ricorda il numero di targa di quella Bmw grazie, probabilmente, a un’eccezionale memoria fotografica a distanza di decenni. La squadra mobile ha eseguito gli accertamenti e ha scoperto che la targa esiste, ma si tratta di quella un trattore.
Il proprietario, su cui la squadra mobile ha preso informazioni, svolge una semplice attività di autotrasportatore e ha accertato che non ha mai subito un furto, smarrito e nemmeno prestato a qualcuno la sua targa.
Si tratta di una persona che non ha nulla a che fare con tutti questi personaggi, ma è un semplice cittadino che fa il suo lavoro.
Non si può però escludere che Riggio si sia confuso e avrà invertito qualche numero.
Ma, tra i suoi e i racconti di Peluso, è difficile districare la matassa che risulta essere, più che veritiera e verificabile, ingarbugliata.
Vi ricordate Il primo gioco che tutti abbiamo fatto sulla Settimana Enigmistica che si chiamava “unire i puntini”?
Al processo sulla trattativa i puntini non si uniscono.
Udienza dopo udienza è sempre più lecito chiedersi cosa possa avere a che fare tutto questo con la trattativa Stato-mafia o con le stragi di Capaci e Via D’Amelio dove persero la vita Falcone e Borsellino e le loro scorte.
Purtroppo la storia, anche non recente dell’Italia, ci ha dimostrato che il passo tra “entità superiori” e “amici della domenica”, è davvero breve.
E infine, ancora una volta, “Cui prodest?” (a chi giova?)
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2020-12-21 12:12:30
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