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Libia. In Tripolitania «l’Europa sta costruendo un regime mafioso»

by Alessio Di Florio
21 Gennaio 2021
in Mafie
Reading Time: 5 mins read
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Febbraio 2016, un’inchiesta della giornalista internazionale Nancy Porsia evidenzia la figura chiave nel traffico di esseri umani del capo della guardia costiera a Zawiya: Abdurahman Al Milad Aka Bija, accusato di avere legami con le milizie di Tripoli che portano i migranti dal Sahara alla costa prima che siano imbarcati verso l’Italia.

Accuse ribadite due mesi dopo anche dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni. Il porto della città è lo snodo centrale di tutta la costa occidentale libica per i traffici di esseri umani e di petrolio. Mentre le forze militari europee schierate in mare, denunciò la Porsia, chiudono un occhio solo il traffico di carburanti vale 10 milioni di euro. E nei due anni precedenti «le milizie hanno infiltrato l’amministrazione della raffineria qui, e anche della guardia costiera».

L’anno dopo Nello Scavo su Avvenire documenta che nel maggio 2017 Bija è stato tra i partecipanti ad un incontro internazionale, organizzato e ospitato in Sicilia dal governo italiano. Obiettivo, concordare strategie comuni tra Italia e Libia su come bloccare le partenze dei migranti dall’Africa. E, dopo la fine dell’incontro Bija ha visitato alcuni centri per migranti in Italia (tra cui il tristemente noto CARA di Mineo)  e la sede della Guardia Costiera a Roma. Onori che si riservano ad alleati e grandi amici. Eppure Bija era già considerato uno dei trafficanti che lucravano e dominavano lo sfruttamento dell’immigrazione.

E non uno qualsiasi ma, grazie alla Guardia Costiera libica tante volte in questi anni decantata e foraggiata dall’Italia, tra i più forti. E inumani. Durante la visita di Bija al Cara di Mineo – ha raccontato Scavo – un migrante per errore è finito quasi a contatto con lui. Quando lo vede si allontana spaventato ed urla «Mafia libia». Le Nazioni Unite disposero nel luglio 2018 il blocco dei suoi beni e gli imposero il divieto di viaggiare. La stessa Guardia Costiera libica aveva dichiarato di averlo sospeso, parole a cui non erano seguiti fatti in quanto continuò ad essere presente ed attivo nel traffico di esseri umani. Lo stesso Scavo in vari articoli su Avvenire tra il novembre 2019 e il giugno di quest’anno ha evidenziato l’esistenza di reti mafiose tra Libia, Malta e la Sicilia anche per il traffico illecito di petrolio.

Un traffico per il quale sono indagati personaggi vicini ai clan mafiosi catanesi dopo l’operazione «Dirty Oil», tra cui alcuni mediatori considerati vicini alla famiglia Santapaola-Ercolano. Nello stesso periodo di «Dirty Oil», secondo l’Osservatorio antidroga dell’Unione Europea, l’Italia ha ricevuto segnalazioni di spedizioni di hashish dirette alla città di Zuara.

Secondo un report dell’organizzazione era «stato sviluppato un sistema complesso, che collega gli attori criminali libici e i leader delle milizie, coinvolti in diverse forme di contrabbando e tratta, con aziende e uomini d’affari con interessi nel commercio legale in Libia, Malta, Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Albania, Montenegro, Turchia, Siria, Libano, Egitto e Emirati Arabi Uniti (Dubai)» e le milizie libiche «hanno permesso l’importazione, lo stoccaggio e la riesportazione di droga su larga scala». Inchieste e denunce su cui non c’è mai stata nessuna reazione istituzionale, totale silenzio nel dibattito pubblico italiano. Nel contesto libico la Russia punta ad assicurarsi il controllo di «alcune zone petrolifere della Cirenaica e il definitivo l’accesso al mare che gli consentirà di avere una base navale nel Mediterraneo», la marina turca di «prendere il completo controllo di quella parte di Guardia costiera libica che risponde direttamente al governo di Tripoli e non a una delle milizie.

Da giorni le motovedette regalate dall’Italia vengono adoperate dagli istruttori turchi, che non hanno tempo per lasciarle andare a pattugliare le rotte solcate dai gommoni dei migranti. Un messaggio chiaro rivolto soprattutto all’Italia».

Nancy Porsia ha documentato le organizzazioni mafiose ad ovest di Tripoli per due anni e iniziò a pubblicare la sua inchiesta nel marzo 2016, concentrandosi all’inizio su Sabrata e la rete dei trafficanti in città. «All’indomani dell’uccisione dei due lavoratori italiana della società Bonatti Fausto Piano e Salvatore Failla, che erano stati rapiti otto mesi prima nei pressi del compound a guida Eni Oil &Gas con altri due colleghi Gino Pollicardo e Filippo Calcagno – raccontò nel settembre 2017 – scrivevo delle milizie che operano nella zona dove è avvenuto il rapimento e la faida interna per il controllo del territorio».

Intervistando un uomo della sicurezza di Sabrata denunciò «la losca figura di Ahmed Dabbashi, meglio noto con il suo nom de guerre Al Ammu», tra i principali «trafficanti di esseri umani lungo la costa libica e cugino di Abdallah Dabbashi, capo della cellula dello Stato Islamico a Sabrata,  il quale – secondo pezzi della sicurezza di Sabrata – sarebbe stato il mandante del rapimento dei quattro dipendenti della Bonatti, ottiene l’incarico per la sicurezza esterna del compound Mellita Eni Oil & Gas a firma della società petrolifera libica NOC. I servizi italiani che anche all’epoca vantavano una presenza massiccia sul territorio, chiusero un occhio, dando il via già nel 2015 al processo di istituzionalizzazione del miliziano Ahmed Dabbashi».

Nello stesso mese, in un’intervista a Stefano Galieni per il sito web dell’Associazione Diritti e Frontiere, evidenziò il processo col quale l’Italia criminalizzava sempre più il soccorso in mare e, contemporaneamente, addestrava le forze militari libiche. Consegnando anche mezzi che risalivano agli accordi del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi. Con il processo che l’allora ministro dell’Interno Minniti stava portando avanti  si istituzionalizzarono le milizie e i maggiori trafficanti in Libia, la «connivenza con le stesse guardie corrotte» e «in odore di mafia, in quanto parte integrante di un sistema mafioso che trafficava i migranti». L’Italia e l’Europa di fatto così hanno costruito di fatto, soprattutto in Tripolitania, un regime mafioso la risposta positiva di Nancy Porsia ad una precisa domanda di Stefano Galieni.

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Alessio Di Florio

Vicedirettore WordNews.it - È nato ad Atessa (Chieti), nel 1984. Attivista e volontario di varie associazioni e movimenti culturali, ambientalisti, pacifisti e di lotta alle mafie. Collaboratore della redazione abruzzese di Pressenza e di TeleJato.it. Ha collaborato con Adista, Primadanoi, Terre di Frontiera, Unimondo, Libera Informazione, Popoff Quotidiano e SocialPress. Ha curato, per oltre dieci anni, il sito personale del giornalista e regista RAI Stefano Mencherini, dove è stata curata la diffusione e la pubblicizzazione del documentario d’inchiesta «Schiavi. Le rotte di nuove forme di sfruttamento», con il quale è stata portata avanti la “Campagna di sensibilizzazione per l’informazione sociale”, in collaborazione con MeltingPot e Articolo21, e per la creazione di un Laboratorio permanente di inchiesta e documentari sociali in RAI, nata per rompere la censura televisiva del documentario d’inchiesta “Mare Nostrum”. Articoli su tematiche sociali e culturali sono stati pubblicati dal mensile Vasto Domani. Per contatti: redazione@wordnews.it

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