Da più di anno stiamo vivendo un’emergenza sanitaria mondiale: per quanto ciò sia stato sconvolgente per noi però, sappiamo bene che le epidemie non sono certo un’esclusiva del XXI secolo, ma che si sono già verificati eventi analoghi nel corso della storia, alcuni dei quali hanno interessato ovviamente anche il territorio italiano, dalla peste nera del Trecento fino alla peste bubbonica diffusa in Italia (ancora disunita politicamente) tra il 1629 e il 1633.
Oltre al dramma, che ormai conosciamo bene, di vedere famiglie che perdono dei cari e città la cui popolazione risulta decimata, un evento tragico come un’epidemia può avere tutte le caratteristiche per diventare lo scenario di una toccante pagina letteraria, dove la sofferenza può essere incanalata in una direzione “costruttiva” come appunto quella dell’espressione artistica o letteraria.
Come è già noto, lo scrittore ottocentesco Alessandro Manzoni ambientò I promessi sposi nella Lombardia del Seicento: lo scrittore svolse un impegnativo lavoro di ricerca e documentazione per ricostruire fedelmente il contesto in cui ambientare il suo più importante romanzo storico (o meglio, il Seicento è il vero protagonista, in cui si muovono i personaggi principali). Tra i mali del secolo preso in esame c’era dunque l’epidemia di peste scoppiata nel nord Italia e diffusasi velocemente a Milano nel 1630, in cui si sono imbattuti anche i giovani protagonisti Renzo e Lucia, che prima di potersi sposare hanno dovuto affrontare numerose difficoltà.
Dopo aver contratto la peste Renzo, ormai guarito e quindi immune alla malattia, salì sul carro dei monatti per girare Milano in cerca di Lucia, che a sua volta si trovava in cattive condizioni di salute. Quest’esperienza mise il personaggio di Renzo a confronto con le storie delle famiglie milanesi, una in particolare, tutta al femminile: una madre che consegnava ai monatti il corpo della sua bambina. Il brano tratto dal capitolo XXXIV a cui si fa riferimento mi è stato fatto studiare alle scuole medie dall’ insegnante di letteratura italiana: mi è tornato in mente dopo così tanto tempo perché, oltre a riguardare un argomento attuale come quello appunto delle epidemie, offre una delicata descrizione di un personaggio femminile.
In una società che si contraddice parlando prima di discriminazione di genere, ma che poi fa della mercificazione del corpo femminile uno dei suoi punti fermi (vedasi le pubblicità e alcuni programmi televisivi …), la descrizione della madre di Cecilia colpisce perché è realmente fedele a quella di una donna vera, che porta dentro il suo dolore, ma con dignità. Risulta bella perché non viene presentata in maniera estremamente idealizzata e quasi irreale come la Beatrice dantesca, ma nemmeno come una più contemporanea donna che manifesta la propria sofferenza urlando frasi senza senso in qualche talk show o lamentandosi sui social. La madre di Cecilia è descritta in tutta la sua umana sofferenza, ma sembra ugualmente una creatura eterea perché porta con sé un’eleganza composta, arricchita da un vissuto personale (in questo caso tragico) che rende una donna certamente non perfetta, ma sicuramente autentica, ragione per cui ho proposto di condividere il brano con i lettori.
“Entrando nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo si incontrò in un oggetto di singolare pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavano il segno di averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza de’ volti non ne avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
[…] La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: « addio, Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi, ch’io pregherò per te e per gli altri. » Poi voltatasi di nuovo al monatto, « voi, » disse, « passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. »
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finchè il carro non si mosse, finchè lo potè vedere, poi disparve. E che altro potè fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato.”
Lontana da voler fare paragoni piuttosto ovvi tra il modo di vivere le epidemie nel presente e nel passato, mi soffermerei invece sulla sostanziale differenza che ho riscontrato tra il banale pietismo che attualmente dilaga sui social in merito all’argomento pandemia di Covid (es. persone che postano foto in cerca della commiserazione altrui, frasi di solidarietà che non sempre si trasformano in aiuti concreti …) e la sincera pietà provata dal personaggio di Renzo e descritta da Manzoni in questo passo relativo alla peste del Seicento, una pietà che è ben lontana dalla semplice compassione e che diventa vera empatia, ovvero la capacità di sentire le emozioni altrui, anche quelle negative, per emozionarsi poi in prima persona.
Bibliografia e Fonti
Manzoni A., I Promessi Sposi, 1975, Firenze, La Nuova Italia Editrice, pp. 639 – 641
Barberi Squarotti et al., Storia e antologia della letteratura italiana vol.4 L’Ottocento, Bergamo, Atlas.
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2021-05-31 16:50:54
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