La realtà, in questo periodo, è sotto il segno dell’incertezza per le prospettive future. Si avverte qualcosa che, probabilmente, fu vissuto nel 1929 con la più famosa crisi finanziaria del XX secolo.
Uno sforzo, comunque, va fatto per cercare di comprendere cosa sta succedendo. Ascoltando i vari esperti di economia che si susseguono sui mezzi di comunicazione, sembra che l’elemento più importante, nell’origine della crisi, è rappresentato dal rallentamento della crescita del PIL. Quindi, per uscirne, secondo il parere di questi economisti, bisogna aumentare la crescita economica e, di conseguenza, i consumi a livello planetario.
Questo è il modello del ciclo economico capitalistico che ci domina dal XIII secolo, quando furono create, in Italia, le istituzioni bancarie e si cominciò a concentrare ricchezza che veniva investita per creare altra ricchezza con un meccanismo continuo di espansione. Il capitalismo si è potuto sviluppare perché la concentrazione demografica era relativamente bassa mentre la disponibilità di risorse primarie, in proporzioni, era enorme. Ha mediamente migliorato le condizione di vita, nonostante gli evidenti squilibri sociali e planetari, permettendo quello sviluppo demografico che oggi ci porta ad avere 7 miliardi di abitanti sulla Terra. Ora, però, dobbiamo chiederci se un sistema finito come il pianeta Terra può sopportare questa continua espansione demografica ed il modello economico di crescita costante con un consumo esponenziale delle risorse primarie del pianeta senza che ci sia il tempo e la possibilità di ripristinarle.
Forse questo è il problema vero da comprendere e da affrontare.
Nel dopoguerra, il piano Marshal, sotto l’egida del keinesismo e con gli accordi di Bretton Wood, che ponevano il dollaro al centro del sistema finanziario come punto di riferimento e stabilità, si ebbe, specie in Europa, una espansione della produzione e della ricchezza in maniera diffusa con la creazione di uno stato sociale solido a protezione di una fascia molto estesa della popolazione e la valorizzazione del lavoro. Quando, negli anni '70, entrò in crisi l’economia, il dollaro cominciò a fluttuare come le altre monete, con una disdetta di fatto degli accordi di Bretton Wood, e si crearono le condizioni per la libera circolazione mondiale dei capitali, mentre le merci erano un po’ meno libere nei movimenti ed ancora meno la forza lavoro. In questo modo il capitale si spostava dove era possibile aumentare i propri profitti a scapito del lavoro e dello stato sociale.
Il meccanismo di concentrazione del capitale in poche mani, diminuendo progressivamente il valore del lavoro e dello stato sociale, che si è avviato in quel periodo, sta ancora avvenendo. 55000 sono i miliardi di dollari che derivano dalla produzione a livello mondiale, mentre 600000 sono i miliardi di dollari che derivano da attività finanziarie.
Quindi per ogni dollaro della produzione, ci sono più di dieci dollari che derivano da un meccanismo di scommessa e di azzardo, senza alcuna ricchezza reale dietro, che appartiene alla finanza. Sembra che non ci sia più capacità globale di espandere la ricchezza con la produzione e quindi, il capitalismo che per sopravvivere, ha bisogno di una crescita del PIL mondiale di almeno il 3% annuo, si è spostato sulla finanza.
La crisi del 2008 ha questa origine. Si è favorito, specie negli USA, l’indebitamento di una massa di soggetti, per l’acquisto della casa, che erano potenzialmente insolventi. Il rischio di queste operazioni è stato spalmato su un insieme di titoli che, in seguito, verranno definiti tossici. Quando gran parte di questa popolazione non ha onorato i debiti, il castello e crollato. I cittadini interessati hanno perso i loro averi , alcune banche sono fallite, chi deteneva i titoli tossici ha perso gran parte del capitale.
Per non far fallire il sistema sono intervenuti gli stati, in particolare gli USA, che hanno ricapitalizzato le banche con debito pubblico che ora si sta scaricando su tutti noi. I soldi non sono stati dati ai cittadini interessati dalla crisi, che hanno comunque perso i loro beni, ma alle banche. Queste, una volta salvate, hanno ripreso a speculare. Ora stanno scommettendo sul fallimento dell’euro e lo favoriscono attaccando le strutture più deboli del sistema approfittando dell’anomalia europea che ha una moneta unica senza una corrispettiva unità politica. Alla fine di tutto questo movimento, abbiamo sempre di più uno spostamento di ricchezza, tramite la finanza, verso il capitale a discapito del valore del lavoro e della sicurezza sociale.
Molti ritengono che tutto quello che sta succedendo dipenda solo dallo spostamento del baricentro economico verso la Cina e l’India. Questo è parzialmente vero.
Dobbiamo chiederci, però, se altri 2 miliardi di persone possono consumare come il modello occidentale e quanta distruzione di risorse primarie del sistema Terra questo implichi. La Cina, in particolare, ha calcolato che per soddisfare la domanda interna e la possibilità di migrazione annuale di circa 15 milioni di individui dalla campagna alle città, deve far crescere, almeno dell’8% l’anno, il suo PIL. E’ pur giusto una ridistribuzione planetaria della ricchezza come sta avvenendo. Tuttavia dobbiamo chiederci: è questo il metodo migliore affinché la redistribuzione avvenga ed è compatibile con un sistema finito come il pianeta Terra?
Probabilmente c’è un limite nell’espansione della ricchezza con l’aumento della produzione. Il depauperamento dei mari e dei depositi di materie prime, la distruzione delle foreste , l’accumulo di CO2 e di rifiuti, forse sta a significare che lo sfruttamento delle risorse primarie della Terra è al limite. L’ espansione del capitale con aumento della produzione, forse, non è più possibile. Ecco perché sembra che il meccanismo di accumulo si sposta sempre più verso la finanza, depotenziando progressivamente il valore del lavoro e dello stato sociale. In questo modo, per sopravvivere, il capitalismo deve concentrare sempre di più la ricchezza creando sempre più povertà diffusa.
La crisi del 1929 si risolse solo con la seconda guerra mondiale, la distruzione che questa implicò e la ricostruzione postbellica.
Se è vero che la situazione attuale scaturisce dal limite di utilizzo della nostra zattera, il pianeta Terra, per dare una risposta alla crisi dovremmo porci nel medio-lungo periodo due obiettivi fondamentali:
1) Un diverso modello di ciclo economico che non ponga al centro del sistema una crescita illimitata ed aspecifica del PIL.
2) Il controllo demografico, con tutte le implicazioni etiche e pratiche che questo implica
Per il momento concentriamoci sul modello di ciclo economico.
Quello attuale si basa sul trarre il maggior profitto possibile da qualsiasi scelta di investimento, considerando marginali o inevitabili gli eventuali danni ambientali e sociali che si determinano. L’atto di fede, che sembra dominante, consiste nel ritenere che un aumento della ricchezza globale ha comunque una ricaduta diffusa sulla popolazione. Il meccanismo per aumentare i consumi è favorito dalla creazione di bisogni indotti. I massmedia, la pubblicità palese ed occulta, il sistema di formazione-informazione tendono tutti ad un controllo dei frame profondi del cervello in maniera tale che appare del tutto naturale avere questi bisogni.
E’ nel controllo pervicace e persistente di questi circuiti cerebrali profondi il cuore che regge il sistema. Ne scaturiscono da questi anche gli assetti valoriali. I migliori sono coloro che accumulano più ricchezze e potere con una maggiore capacità o potenzialità di consumo. Essi stessi diventano modelli, miti di questa società. La criminalità organizzata trae ispirazione da questi assetti valoriali ed appare, profondamente inserita nel tessuto sociale. Non sarebbe possibile una così lunga e pervicace sua presenza, anzi espansione, se fosse un vero corpo estraneo della società.
In definitiva il ciclo economico attuale si basa sulla costante espansione del PIL, senza tener conto di quelli che possono essere i danni ambientali derivanti da un consumo delle risorse primarie del sistema Terra, senza la possibilità di ripristino delle stesse. Il meccanismo è fatto in maniera tale che sembra non sia possibile fermarsi. E’ insito nella dimensione valoriale la necessità di accumulare ricchezze e consumare.
Quale modello alternativo si potrebbe ipotizzare? Cosa mettere al centro del sistema dei nuovi cicli economici?
Se invece della necessità di espansione continua del PIl si facesse dell’equilibrio ambientale del pianeta Terra il punto di riferimento delle nuove scelte, forse si riuscirebbe a reimpostare l’economia.
Ciò significa che i consumi, il lavoro, gli investimenti, la produzione di energia dovrebbero avere come necessità primaria il mantenimento dell’equilibrio del Pianeta e non l’espansione del PIL. In sostanza bisognerebbe indirizzare i cicli economici per un processo virtuoso e non per una crescita aspecifica.
Il concetto della globalizzazione che implica il porre al centro del movimento dei capitali, la ricerca dei siti a più basso costo di manodopera e materie prime per aumentare la concentrazione del capitale, va sostituito con un’idea di rilocalizzazione dei mercati. Del resto il produrre lontano da dove si consuma, sta creando una crisi di sistema: non distribuendosi più ricchezza, diventa sempre più difficile allocare le merci. Sulle merci, non viene calcolato il costo reale di trasporto, che con diversi meccanismi viene distribuito sulla fiscalità generale, né il danno ambientale dovuto all’accumulo di CO2 per il consumo di idrocarburi per lo spostamento delle stesse. Rilocalizzare al massimo i mercati implica l’idea di costruire cicli economici che possano ridistribuire la ricchezza in loco per l’acquisto delle merci prodotte, ridurre il movimento delle stesse, con diminuzione dell’inquinamento ambientale, e favorire cicli di produzione più attinenti a bisogni reali e non indotti per espandere semplicemente i consumi.
Quindi, in pratica, bisognerebbe cercare di creare le condizioni di produrre e consumare su una filiera breve quante più merci è possibile,e solo l’eccedenza spostarla dove c’è bisogno. Così pure, l’acquisto di merci, non prodotte in loco, va riservato a quelle di cui necessita la popolazione. Un meccanismo del genere permetterebbe di controllare anche meglio la riduzione del danno ambientale: vivendo nella stessa zona di produzione e consumo è interesse della popolazione che la qualità del cibo, dell’acqua e dell’area siano conservate. Questo non avviene nell’organizzazione della globalizzazione in quanto i costi ambientali si ritiene che possano sempre essere pagati da altri.
La distruzione di economie locali, come si è avuta con il colonialismo, ha prodotto su quei territori danni enormi che ancora adesso condizionano le vite di quelle popolazioni. Riteniamo inevitabile, in nome del dio mercato, dover respirare area inquinata, ammalarci per presenza di sostanze tossiche nell’ambiente, doverci muovere come sardine in scatolette in cui rimaniamo bloccati per un tempo prolungato. Sentiamo il bisogno di merci che, molto probabilmente,sono del tutto o, in gran parte, inutili.
Se, al posto del profitto, si introduce un valore come la qualità di vita e, intorno a questo si comincia a costruire i cicli economici, avendo sempre come punto fondamentale di riferimento, il mantenimento dell’equilibrio ambientale, forse riusciremmo ad avere un futuro migliore.
Il riassetto idrogeologico dovrebbe avere la priorità. Il recupero del patrimonio edilizio esistente ,finalizzato al consolidamento statico, isolamento termico, capacità di produrre energia da fonti rinnovabili, recupero dell’acqua piovana, andrebbe preferito a quello di gettare nuovo cemento per le abitazioni, Là dove c’è necessità reale di nuove abitazioni, i criteri esposti per il recupero dovrebbero costituire il punto di riferimento per le nuove costruzioni.
La produzione di energia dovrebbe indirizzarsi verso le fonti rinnovabili con la possibilità di integrazione tra il solare, l’eolico e le biomasse con un sistema a rete, nel miglior rispetto ambientale. La ricerca di altre energie pulite, ed in primis dell’idrogeno, va incentivata.
Il favorire una mobilità collettiva e non individuale, dovrebbe rappresentare una priorità. Gran parte dei cicli economici attuali si sono costruiti intorno all’automobile sia come produzione diretta, sia come indotto economico ricollegato, compreso le infrastrutture. Ripensare alla mobilità significa ripensare a gran parte dell’attuale economia. Del resto, il mercato dell’automobile è in crisi perché non in grado più di espandersi.
Ridurre al massimo la produzione di rifiuti e attivare il massimo recupero degli stessi è un problema sempre più pregnante. In diverse zone del Pianeta l’accumulo dei rifiuti sta creando emergenze ambientali drammatiche. Non è di altri il problema ma di tutti.
Se domani vorremmo avere un futuro migliore, penso che dovremmo muoverci su queste linee. Tuttavia, dopo secoli in cui i nostri circuiti neuronali, i così detti frame profondi, si sono formati intorno all’idea che è naturale accumulare ricchezza e potere, penso che la difficoltà maggiore per un nuovo ciclo produttivo che metta al centro l’equilibrio ambientale, stia proprio qui. Il risolvere questo problema probabilmente potrà costituire il momento di svolta nella nostra società.
Lucio Pastore
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2024-04-11 18:17:20
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