La risposta è inerziale. Siamo in Italia, in un Paese uscito a pezzi dopo due guerre mondiali e dissennate politiche di mal-governo (pre e post belliche), in una repubblica costruita nell’ideale democratico malgrado la sindrome incancrenita della disorganizzazione e la diffusa incapacità di operare per il bene Comune per una altrettanto diffusa fisiologica assenza di un sentimento di appartenenza allo Stato di diritto.
Ma siamo sempre comunque in un Paese che nel corso della sua storia ultramillenaria ha anche saputo esprimere quella Cultura apprezzabile oggi (laddove non ha ancora subito scempi per incultura o interessi fraudolenti). Sempre il nostro Paese ha posseduto sue peculiarità che, nel bene e nel male, lo hanno contraddistinto nel generale panorama internazionale, come un singolare agglomerato di varie umanità capaci di ridere e piangere nello stesso tempo, di considerare i dati numerici non sempre come evidenze, ma come enti astratti atti ad esprimere valori di segno diverso a seconda dell’analista politico di turno.
Peculiarità, dicevo. Le peculiarità non sono il tutto, non esprimono il tutto bensì un frammento o più frammenti del tutto, ciò che – trasponendo il concetto sul piano sociologico – individua la totalità, entità con caratteristiche proprie, qualitativamente diverse da quelle dei singoli individui. Quella totalità che, restando in ambito sociologico, rappresenta il gruppo, ossia quell’ambito in cui gli individui si amalgamano per creare qualcosa di più grande. Quella totalità con le caratteristiche appena evocate, acutamente definita da Kurt Zadek Lewin (1890-1947) come realtà necessariamente dinamica che deve muoversi continuamente verso un obiettivo aggregante in quanto la staticità ne decreterebbe la fine.
È comprensibile a tutti che per il raggiungimento di un obiettivo è necessaria la collaborazione di tanti e che perché ci sia collaborazione è importante la condivisione delle finalità e la capacità di realizzarli non per proclami o petizioni di principio, ma per competenza.
E vado a rispondere alla domanda recata dal titolo. Dove siamo, noi italiani, nell’anno 2024 d.C.?
Per secoli si è cercato di adoperarsi perché nella realtà delle cose si cercasse il Bello e lo si sublimasse attraverso opere destinate a divenire “oggetti di culto” di una civiltà in evoluzione, simboli della genialità nei diversi ambiti della cultura, della politica, della scienza, delle arti in genere. Oggi, e basta, leggere il 58° rapporto Censis, siamo intrappolati in una sindrome italica galleggiante, assolutamente peculiare per l’esponenziale flessione dei valori di civiltà giuridica, culturale, umana verso una statica mediocrità pervasa da contraddizioni, maleducazione, aggressività. Anche nella dialettica sociale, infatti, la sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole, così caratteristica dei nostri tempi, non è sfociata in violente esplosioni di rabbia: un generalizzato nientismo in galleggiamento all’interno di un campo di oscillazione molto ampio.
Non posso non mappare quelle peculiari evidenze sintomatiche che non devono (dovrebbero) lasciare gli italiani indifferenti e far arrossire di vergogna i decisori della Cosa pubblica. Il Censis fotografa una situazione nostrana inscritta nel solco del cambiamento d’epoca che investe le società europee e occidentali, ma con sue proprie specificità. La sindrome italiana è la staticità nella medietà, natante in cui siamo in ostaggio.
All’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio si oppone la messa in discussione dei grandi valori unificanti del passato modello di sviluppo (il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo), come dimostrano:
– il ritrarsi dalla vita pubblica, con un tasso di astensione che alle ultime elezioni europee del 2024 ha toccato un livello mai raggiunto prima nella storia repubblicana, pari al 51,7% (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%), e una diffusa indifferenza verso quegli strumenti della mobilitazione collettiva che un tempo erano ampiamenti utilizzati, visto che il 55,7% degli italiani oggi considera inutili le manifestazioni di piazza e i cortei di protesta;
– la sfiducia crescente nei sistemi democratici, dal momento che l’84,4% degli italiani è convinto che ormai i politici pensino solo a sé stessi e il 68,5% ritiene che le democrazie liberali occidentali non funzionino più;
– l’opinione che l’Unione europea sia una sorta di guscio vuoto, inutile o dannoso, se il 71,4% degli italiani è convinto che, in assenza di riforme radicali e di cambiamenti sostanziali, sia destinata a sfasciarsi definitivamente;
– il non riconoscersi più nelle grandi matrici valoriali unificanti del passato, poiché il 70,8% degli italiani esprime oggi un più o meno viscerale antioccidentalismo ed è pronto a imputare le colpe dei mali del mondo ai Paesi dell’Occidente, accusati di essere stati arroganti per via del presunto universalismo dei propri valori, per cui si è voluto imporre il nostro modello economico e politico agli altri. Basti considerare che il 66,3% degli italiani attribuisce all’Occidente la responsabilità delle guerre in corso in Ucraina e in Medio Oriente (non a caso, solo il 31,6% si dice d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil) e il 51,1% è persuaso che l’Occidente sia destinato a soccombere economicamente e politicamente dinanzi all’ascesa di Paesi come la Cina e l’India.
Ogni universalismo – ritenuto figlio illegittimo dell’etnocentrismo occidentale – è diventato sospetto, e adesso i movimenti del rimprovero non rimangono confinati entro elitarie conventicole di intellettuali: in molte case italiane sventola il vessillo dell’antioccidentalismo.
Se non si può più salire socialmente grazie alle capacità personali, all’impegno, al merito, allo studio e al lavoro, vivendo dentro una società proiettata verso la crescita, allora, in una società che invece ristagna, il desiderio di riconoscimento può – e deve – essere appagato spostando la partita in un altro campo da gioco: quello della rivalità delle identità.
Si ingaggia una competizione a oltranza per accrescere il valore sociale delle identità individuali etnico-culturali, religiose, di genere o relative all’orientamento sessuale. Nel nuovo contesto, le questioni identitarie tendono a sostituire le istanze delle classi sociali tradizionali e assumono una centralità inedita nella dialettica socio-politica.
La contesa può dispiegarsi sul piano formale, nella ricerca della codificazione di un preciso status giuridico, altre volte si svolge su un piano squisitamente simbolico, dentro una sempre più aspra dialettica sociale delle differenze, che implica l’adozione della logica “amico-nemico”:
– il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico;
– il 38,3% si sente minacciato da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti;
– il 29,3% vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale;
– il 21,8% avverte ostilità nelle persone che professano un’altra religione;
– la stessa inimicizia separa il 21,5% degli italiani dalle persone appartenenti a una etnia diversa, il 14,5% da chi ha un diverso colore della pelle, l’11,9% da chi ha un orientamento sessuale diverso. Sono dati che rivelano il pericolo che il corpo sociale finisca per frammentarsi dentro la spirale attivata dalla costruzione di rigidi confini identitari, in cui le differenze si trasformano in fratture e potrebbero degenerare in un aperto conflitto.
Un solido ceto medio poteva neutralizzare le divergenze identitarie, stemperandole per mezzo di un’agenda sociale largamente condivisa. Il suo indebolimento rende oggi il Paese non più immune al rischio delle trappole identitarie.
Mentre il dibattito politico si arrovella sui criteri normativi da adottare per regolare l’acquisizione della cittadinanza italiana, in una parte della popolazione ha messo radici la convinzione che esista una identità distintiva:
secondo il 37,6% degli italiani (e il dato sale al 53,5% tra le persone in possesso di un basso titolo di studio) l’“italiano vero” discende da un ceppo morfologicamente definito, fonte originaria della identità nazionale.
Addirittura, il 13,7% (il 17,4% tra le persone meno scolarizzate) pensa che per essere italiani occorra poter esibire determinati tratti somatici.
Le persone meno istruite sono maggiormente propense a pensare l’italianità come una identità cristallizzata e immutabile, con inconfondibili radici primigenie, che tra i suoi fattori costitutivi comprenderebbe la diretta discendenza da italiani (per il 79,9%, a fronte del 57,4% riferito all’intera popolazione) e anche l’essere di fede cattolica (per il 62,2%, a fronte del 36,4% riferito all’intera popolazione).
Siamo finiti così, nell’anno 2024 post Christum natum.