“Sto mandando questo messaggio con la speranza di avere un minimo di aiuto. A casa mia, da giorni, mangiamo scatolette. Io e mia cognata non ci curiamo più. E io ho quattro bypass. È grave.”
Sono parole amare, pesanti come macigni, quelle pronunciate da Bennardo Mario Raimondi, artigiano siciliano e vittima di racket, che oggi si ritrova in uno stato di totale abbandono. Le istituzioni che avrebbero dovuto tutelarlo dopo la denuncia, lo hanno lasciato solo, nell’indifferenza generale.
L’ultima umiliazione arriva direttamente dalla Regione Siciliana:
“Si comunica che il giorno 16 maggio 2025 si procederà, a norma dell’art. 8 dell’Avviso pubblico, al sorteggio delle posizioni ex aequo nella graduatoria provvisoria pubblicata sul sito di Irfis FinSicilia S.p.A.”
Una procedura fredda, burocratica, che sembra ignorare la disperazione dietro ogni singola domanda. Tra quelle 97 mila domande, ce n’è una che racconta più di tutte la vergogna di uno Stato assente, la violenza dell’indifferenza. È quella di Raimondi.
Aveva chiesto il cosiddetto reddito di povertà, previsto per situazioni di particolare disagio sociale. Era entrato in graduatoria, ma si è ritrovato invischiato in una logica numerica e spietata:
“La Regione potrà pagare solo circa 6000 domande. Il resto? Niente. Nemmeno un euro.”
Raimondi non è un semplice cittadino in difficoltà. È una persona che ha avuto il coraggio di denunciare il racket, di esporsi, di sfidare la criminalità organizzata. Ma a quanto pare, quel gesto, invece di aprire porte, le ha chiuse tutte.
“Ho fatto il mio dovere. E l’ho pagato caro. Lavoro? Nessuno. Fiere o sagre? Servono soldi che non ho. La pensione d’invalidità è di 340 euro al mese. Come si sopravvive?”
Il 23 maggio si avvicina. Il Paese ricorda i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, insieme agli agenti della scorta uccisi nella strage di Capaci. Si pronunciano parole solenni, si depongono corone, si celebrano valori. Ma come denuncia lo stesso Raimondi:
“Le vittime come me restano sempre isolate. Mentre i mafiosi si rifanno il trucco e la politica gira la testa dall’altra parte.”
Un Paese che premia il silenzio
Il paradosso è crudele: chi denuncia viene punito, dimenticato, schiacciato dal peso dell’indifferenza. Chi tace, chi si volta dall’altra parte, chi si piega alla criminalità, continua a vivere, magari anche con qualche agevolazione. È il Paese che premia il silenzio e punisce il coraggio.
“Chiedere è diventato pesante. Molto pesante. Ma non ho alternative. Non ho più risorse. Neppure umane. Se non potete aiutarmi, vi prego: condividete il mio messaggio. Forse qualcuno lo ascolterà.”
Un appello alla società civile
Raimondi non lancia accuse generiche. Parla con nome e cognome. Chiama in causa la Regione Siciliana, gli enti pubblici, i rappresentanti politici che non rischiano nulla e incassano tutto.
“Complimenti alla Regione Siciliana, tanto i signori onorevoli non hanno problemi di stipendio. E io? Io sopravvivo con scatolette. Con i bypass. Senza cure.”
Il suo appello è un grido che va oltre il bisogno materiale. È la richiesta di riconoscimento, dignità, memoria. E chi fa informazione, chi lotta per la legalità, ha il dovere di amplificarlo.
“Lottare contro la mafia, contro il malaffare, per i diritti umani significa anche questo: aiutare chi ha perso tutto per aver fatto la cosa giusta.”
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Perché il 23 maggio non sia solo retorica.
Perché nessuno debba sentirsi solo dopo aver detto NO alla mafia.