Il 1° giugno 1970, a Milano, si spegne Giuseppe Ungaretti, maestro della poesia del Novecento, testimone del dolore e della dignità umana, esploratore del silenzio e del linguaggio.
Ungaretti è stato molto più di un poeta. È stato il soldato che scriveva versi in trincea, l’uomo che ha fatto della parola una scheggia di verità. Nelle notti del Carso, tra i morti e la pioggia di granate, nasceva una nuova lingua poetica, scarna e assoluta.
«Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie» – scriveva in “Soldati”, pochi versi che racchiudono la precarietà della vita, la sospensione dell’uomo di fronte alla morte.
Oppure:
«Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore.» – (“Veglia”)
Versi brevi, scolpiti, essenziali. Ungaretti cercava la parola giusta come si cerca l’acqua nel deserto, con urgenza e rispetto.
Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888, ha viaggiato tra Parigi, Roma, l’Europa devastata dalla guerra e la spiritualità più profonda. Dalla raccolta Il porto sepolto a Allegria, da Sentimento del tempo a Il dolore, la sua poesia ha attraversato la Storia, la morte del figlio, le guerre, il fascismo, la redenzione, mantenendo sempre viva una domanda: che senso ha l’uomo, di fronte all’abisso?
«M’illumino / d’immenso» – è forse il suo verso più celebre. Due parole per dire tutto. Il mistero, lo stupore, la vita che irrompe anche nel buio.
Ricordare Ungaretti oggi, nel giorno della sua morte, significa tornare a interrogarci sul potere della poesia come resistenza, memoria, fede nella bellezza e nel dolore del vivere.