Castellammare di Stabia vive da più di cento anni sotto il dominio silenzioso e violento di un nome che pesa come una condanna: D’Alessandro.
Un cognome che non evoca solo sangue e piombo, ma anche potere economico, infiltrazioni istituzionali, collusioni con colletti bianchi, professionisti e funzionari pubblici.
Il clan D’Alessandro ha attraversato decenni di faide sanguinose, lasciando a terra centinaia di vittime tra rivali e innocenti. Ha soffocato ogni prospettiva di sviluppo economico, avvelenando il tessuto sociale di Castellammare. Ha insinuato i suoi tentacoli nelle istituzioni, infiltrandosi nella macchina amministrativa comunale e paralizzando la funzione pubblica.
Le recenti inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, coordinate dal P.M. Dott. Cimmarotta e condotte dal Commissariato di Polizia di Stato di Castellammare, hanno documentato la metamorfosi del clan: una vera e propria holding criminale, capace di muovere milioni di euro attraverso un complesso sistema di aziende intestate a prestanome.
Droga, usura, estorsioni, traffici online: ogni settore ha una sua “divisione operativa”. La cosca ha investito pesantemente in attività lecite e illecite, diventando una camorra imprenditoriale, tecnologicamente aggiornata, ma fedele ai metodi violenti della tradizione mafiosa.
Il cuore dell’organizzazione resta in famiglia. Miriam D’Alessandro, 22 anni, figlia del boss Luigi D’Alessandro, secondo gli inquirenti gestiva la cassa del clan, insieme al marito pregiudicato e ad altri fedelissimi.
Tra i nomi storici dell’organizzazione figurano Michele Abbruzzese, Ugo Lucchese, Giuseppe Oscurato, Antonio Salvato, Vincenzo Spista, Giuseppe Donnarumma.
Ma ciò che impressiona è il coinvolgimento di colletti bianchi:
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Fabrizio Jucan Sicignano, funzionario del Comune di Ercolano, accusato di mediazione estorsiva.
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Angelo Schettino, geometra del Comune di Castellammare, secondo i pentiti referente tecnico della cosca: gestiva pratiche edilizie e, grazie a contatti negli uffici pubblici, informava il clan sul funzionamento delle telecamere di sorveglianza.
Il Tribunale del Riesame ha confermato il quadro accusatorio senza esitazioni.
Le indagini attuali dimostrano che l’ultima generazione del clan è tutt’altro che in declino: si rigenera, si evolve, si adatta. Ma resta ancorata alla violenza e al controllo del territorio, grazie alla complicità silenziosa e al supporto di professionisti infedeli.
Questi fatti dimostrano che la camorra non è morta, si è evoluta. Solo pene certe, controlli serrati e una riforma del sistema carcerario – che oggi non impedisce ai boss di comunicare minacce anche dal carcere – possono garantire un vero contrasto. La lotta alla camorra non può permettersi pause, omissioni né silenzi complici.