Cosa significa per te fare giornalismo oggi, in un Paese in cui spesso la verità dà fastidio?
Significa scegliere. Prendere posizione. Fare giornalismo, per me, non è stare alla finestra a guardare cosa succede: è sporcarsi le mani, entrare nelle crepe, ascoltare chi non ha voce. Il giornalismo deve essere schierato: non con una parte politica, ma con la verità, con la giustizia, con chi resiste. Oggi molti preferiscono essere “equidistanti” per non disturbare il manovratore. Io voglio essere utile. E l’unico modo per esserlo è raccontare ciò che altri vogliono nascondere. Anche se dà fastidio. Soprattutto se dà fastidio.
Partiamo dall’inizio. Il tuo percorso narrativo e civile si intreccia subito con storie estreme: mafia, omertà, coraggio solitario. Cosa ti ha spinto ad andare in quella direzione?
La scintilla è arrivata incontrando chi aveva avuto il coraggio di rompere il silenzio. Non criminali pentiti, ma cittadini onesti che hanno scelto di denunciare. Nessuno li raccontava. Li si celebrava per un giorno e poi li si dimenticava.
“Io ho denunciato” è un titolo che ha il sapore di una confessione, ma anche di una condanna. Come nasce questa storia e perché hai scelto la forma narrativa quasi romanzata?
Quella è una storia vera, ma non potevo raccontarla come un semplice reportage. Ho scelto la forma del romanzo civile per entrare nella testa e nel cuore di chi denuncia. Il protagonista è un uomo che ha visto l’illegalità da vicino. E ha detto no. Quel libro è una denuncia politica.
In “Testimoni di giustizia” allarghi la lente. Non c’è più un solo protagonista, ma una pluralità di voci. Che filo unisce queste storie?
L’ingiustizia, la solitudine e il tradimento istituzionale. Ho incontrato madri, uomini che hanno cambiato identità, persone costrette a vivere nascoste. Eppure lo Stato li considera “rompiscatole”, “problemi”. In quel libro ho raccolto le voci che nessuno vuole ascoltare. Non sono pentiti, non hanno mai fatto parte dei clan. Eppure sono trattati peggio di chi ha ucciso. Ho voluto ridare loro la dignità, metterli in copertina. Perché senza di loro, questo Paese sarebbe ancora più buio.
“Una vita contro la camorra” è forse uno dei tuoi libri più duri. Non solo per ciò che racconti, ma per ciò che lasci trapelare: l’assenza di protezione, il tradimento delle istituzioni. È così?
Questo libro è una condanna a voce alta. Racconto la storia di un uomo, Gennaro Ciliberto, che ha denunciato la camorra nei cantieri pubblici, negli appalti truccati, nelle infiltrazioni. E cosa ha ricevuto in cambio? L’oblio. Le minacce. L’indifferenza. È un libro che mette in discussione la retorica della legalità: tutti parlano di legalità finché non gli bussa alla porta. Quando una denuncia tocca interessi potenti, improvvisamente cala il silenzio. “Una vita contro la camorra” è il racconto di una resistenza quotidiana, ma anche di una vergogna nazionale.
Arriviamo a Lea Garofalo. Due libri, due ritratti diversi ma complementari: “Il coraggio di dire no” e “Una fimmina calabrese”. Cosa rappresenta per te questa donna?
Lea Garofalo è madre, è rivoluzionaria, è martire. È la donna che ha deciso di rompere il legame con la ‘ndrangheta per amore di sua figlia. “Il coraggio di dire no” è stato il mio primo grido: l’ho scritto quando nessuno parlava ancora di Lea. Ho voluto restituirle un volto, una voce, una dignità. “Una fimmina calabrese”, invece, è un viaggio più maturo: lì ho cercato di far emergere non solo la tragedia, ma la forza disumana di questa donna che ha scelto la libertà, pagando con la vita. Ogni pagina scritta su Lea è un atto d’amore e di giustizia.
E oggi la retorica sulla sua figura non rischia di banalizzarla?
Lea non deve diventare un’icona addomesticata. Era una donna concreta, piena di contraddizioni, ma con una forza morale impressionante. Non basta una fiction Rai o una commemorazione. Bisogna farla vivere nelle scuole, nei programmi educativi, nei provvedimenti legislativi. Solo così Lea diventa esempio e non mascotte.
In “Il veleno del Molise” cambi scenario, ma non l’impegno. Qui racconti trent’anni di omertà ambientale. Come hai raccolto le prove?
Anni di documenti, inchieste, testimonianze. Ho parlato con magistrati, con ambientalisti, con cittadini che si sono ammalati. In Molise sono arrivati fiumi di rifiuti tossici, spesso provenienti dalla Campania. E nessuno ha parlato. Ho trovato atti giudiziari che parlano di tracciati di morte, camion pieni di scorie industriali seppelliti sotto le strade. Il libro è una mappa dell’orrore, ma anche una richiesta urgente: aprite gli occhi. Questa non è narrativa, è realtà.
Tutti i tuoi libri sembrano dire: “La mafia non è solo un problema criminale, è un problema politico e culturale”.
La mafia non vive solo di estorsioni o di traffici. Vive di complicità, di connivenze, di politica corrotta, di silenzi. Senza pezzi di Stato, le mafie non avrebbero lo stesso potere. Ecco perché scrivo. Per smascherare queste reti invisibili. Non è solo un problema giudiziario. È culturale, educativo, istituzionale. E chi lo nega, mente o è complice.
Nei tuoi libri si percepisce chiaramente che la mafia non è solo criminalità di strada, ma un sistema intrecciato col potere. Quanto è profonda, oggi, l’infiltrazione delle mafie nella politica italiana?
È radicata, pervasiva, sistemica. La mafia non ha più bisogno di mitra e coppole. Ha bisogno di voti, appalti, consenso. E la politica, in troppi casi, ha smesso di difendersi: si è adattata, ha stretto patti. Lo abbiamo visto nelle inchieste, nei processi, nei comuni sciolti per mafia. Non parlo solo di sud Italia. Le mafie sono ovunque. Infiltrano le liste civiche, finanziano le campagne elettorali, entrano nei consigli comunali come portatori di pacchetti di voti. E i politici che fanno finta di non vedere, o peggio, che trattano con loro, sono più pericolosi dei mafiosi stessi. Perché indossano giacca e cravatta, ma si vendono pezzi di democrazia.
Oggi le mafie sono un’emergenza o piuttosto un pilastro del potere?
Parlare di “emergenza” è ridicolo. È una narrazione comoda. Le mafie non sono una tempesta improvvisa: sono un sistema. Un sistema che si nutre di economia, politica, burocrazia. Un potere parallelo che ha trovato negli anni un linguaggio comune con pezzi di Stato. Le mafie non vivono di paura, ma di consenso, di relazioni. Sono integrate, organiche, lucide. Se non lo capiamo, continuiamo a raccontarci favole.
Qual è, oggi, il volto della mafia politica?
Ripeto, non è più quello del boss con la coppola e la pistola. È quello del consigliere comunale che fa assumere il figlio del boss, del sindaco che chiude un occhio su un appalto, del parlamentare che prende i voti da famiglie “vicine”. È tutto molto più subdolo, silenzioso. Ma non per questo meno violento. La mafia oggi indossa abiti firmati e siede nei consigli d’amministrazione. E trova sponde nella politica che fa finta di non sapere. O che, peggio, sa benissimo e ci convive.
Qual è la responsabilità della sinistra e della destra in questo quadro?
Nessuno è innocente. Destra e sinistra, in Italia, hanno storicamente sottovalutato o nascosto i rapporti con le mafie. In certi casi li hanno legittimati. Ci sono stati uomini coraggiosi in entrambi gli schieramenti, ma spesso lasciati soli. La politica dovrebbe essere un argine. Invece troppo spesso è stata un ponte. E quando denunci queste cose, vieni accusato di fare “antipolitica”. Ma non è antipolitica dire la verità. È un dovere civile.
Si parla tanto di “lotta alle mafie”, ma nei fatti cosa manca?
Manca il coraggio. Manca una reale volontà politica. Manca la protezione dei testimoni di giustizia. Manca un sistema educativo che parta dalle scuole e che insegni la legalità non come materia a parte, ma come pratica quotidiana. Manca la trasparenza nella pubblica amministrazione. Manca la voglia di fare nomi e cognomi. E poi manca la memoria viva. Si commemorano Falcone e Borsellino una volta l’anno, ma il resto dell’anno si fanno affari con i sistemi che li hanno uccisi. È ipocrisia di Stato.
Hai scritto libri su chi ha detto no. Ma chi ha detto sì? Chi sono i complici silenziosi della mafia?
Sono i colletti bianchi, gli imprenditori che pagano il pizzo ma non denunciano, i politici che si fanno eleggere coi voti sporchi, i burocrati che chiudono un occhio su una gara d’appalto, i giornalisti che non scrivono, i cittadini che dicono “tanto non cambia nulla”. Sono tanti, troppi. E sono proprio loro che tengono in piedi il sistema. La mafia da sola non può nulla. Ma con loro, fa tutto.
Un ex ministro della Repubblica disse che “con la mafia bisogna convivere”. C’è ancora oggi chi, magari senza dirlo apertamente, la pensa così. È davvero questa la strada? È possibile convivere con la mafia?
È criminale anche solo pensarlo. Quella frase, “bisogna convivere con la mafia”, è una delle più gravi ammissioni di resa pronunciate da un rappresentante delle istituzioni. Significa normalizzare l’orrore. Significa dire a un bambino, a un giovane, a un imprenditore onesto: “Tu non puoi fare nulla, abbassa la testa”. Con la mafia non si convive: si combatte. E si combatte ogni giorno, a scuola, nei tribunali, in consiglio comunale, in redazione, nei cantieri, nelle piazze. Chi convive con la mafia è complice. È inutile sfilare ai cortei per Falcone e Borsellino se poi ci si inginocchia di fronte al potere mafioso, per paura o per convenienza. La legalità non è una posa: è una scelta che si paga.
Hai mai pensato di smettere?
Sono un giornalista che ha scelto da che parte stare. E finché avrò voce, continuerò a raccontare.
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