Enrico Nicoletti, accusato di essere stato il cassiere della Banda della Magliana, è morto il mese scorso a 84 anni. Coinvolto in numerose inchieste e condannato a diversi anni di carcere, in vita ha sempre negato di aver avuto questo ruolo nella Banda che monopolizzò la vita criminale romana negli anni settanta ed ottanta.
C’è un nome che lega il mondo della Banda della Magliana e l’Abruzzo: Antonio Chichiarelli detto Toni. Dopo la morte di Nicoletti lo ha ricordato il direttore di Site.it Angelo Venti.
Chichiarelli, nato a Magliano dei Marsi nel 1948, è stato ucciso a Roma nel settembre 1984. Esponente di spicco della Banda della Magliana Chichiarelli fu accusato di avere rapporti con i Nar, le Br e pezzi dei servizi segreti italiani.
«Sono diverse le impronte lasciate dalla Banda della Magliana nella Marsica – ha ricordato Angelo Venti – Secondo gli inquirenti, parte del frutto dell’attività criminale della banda, gestito anche dal cassiere Nicoletti, sarebbe stato reinvestito nel nostro territorio».
Capitali riciclati nell’acquisto di «terreni ed edifici in diversi comuni marsicani», negli anni novanta – sottolinea il direttore di Site.it – diversi sequestri e confische di immobili a Scurcola Marsicana, Tagliacozzo e nella frazione di Camporotondo, a Cappadocia».
La Marsica, quest’area centrale nell’Abruzzo interno, nei decenni è stata luogo in cui diversi capitali di provenienza illecita sono stati e sono riciclati. Nell’anno appena trascorso, come abbiamo ricordato in alcuni nostri articoli, un’operazione delle forze dell’ordine contro il clan Senese ha coinvolto un imprenditore attivo e in procinto di espandere le sue attività economiche a Campo di Giove e non solo.
Il 24 settembre scorso il Tribunale di Avezzano ha emesso la sentenza relativa al complesso turistico «La Contea» di Tagliacozzo: due assoluzioni e una condanna, confisca confermata per una parte dei beni già sequestrati. Il complesso fu sequestrato nel 2011, primo caso avvenuto in Abruzzo, dopo l’inchiesta che portò a 3 arresti due anni prima. «Il primo caso conclamato di presenza mafiosa in Abruzzo» lo definirono il 16 marzo di quell’anno, poche settimane prima del terribile terremoto indelebile nella memoria collettiva, gli inquirenti. In realtà, cronache giudiziarie dei decenni alla mano, tracce e vicende già avevano interessato l’Abruzzo.
Ma la vicenda di Tagliacozzo sicuramente ha avuto una dimensione molto maggiore anche per la provenienza dei capitali investiti nel complesso turistico: parte del tesoro di Vito Ciancimino, l’ex sindaco DC di Palermo considerato contiguo a Cosa Nostra. Alba d’Oro, ha scritto all’indomani della sentenza Angelo Venti in un editoriale su site.it, «non è solo una storia di capitali di provenienza sospetta e di collegamenti pericolosi con la politica e l’imprenditoria locale.
Duole dirlo, è anche una storia fatta di tante sottovalutazioni, comprese quelle delle locali forze dell’ordine e della magistratura marsicana». Il primo ad interessarsi alla vicenda e a documentare i fatti furono proprio Venti e Site.it nel marzo 2006 e nell’ottobre dell’anno successivo, «una parte del tesoro di Ciancimino, ex sindaco e boss di Palermo, custodita e fatta fruttare proprio nella Marsica, attraverso società e prestanome», resa nota all’inizio «solo grazie alle inchieste giornalistiche dal basso di site.it e Primadanoi.it.
Una storia siculo-marsicana che vale la pena ricordare». Una storia iniziata con lo sbarco del gruppo siciliano in Abruzzo addirittura nel 2000 con l’aggiudicazione di un appalto di quasi 15 miliardi di lire per realizzare (e gestire per 25 anni) la rete metanifera nei comuni di Tagliacozzo, Pereto e Sante Marie. Proseguita negli anni interessandosi al settore energetico, alla gestione dei rifiuti e al settore del movimento terra. Attività economica quest’ultima che tornerà, ancora una volta grazie alle inchieste di Site.it, dopo il terremoto del 6 aprile 2009. Vicende, intrecci e reazioni (o non reazioni) Angelo Venti li ha minuziosamente raccontati nell’approfondimento pubblicato su Site.it il 25 settembre 2020.
«Ci sono state tante indagini sul tesoro di don Vito Ciancimino, credo che il vero tesoro non sia mai stato individuato e che molti dei processi sono nati su sospetti che non si sono mai concretizzati nella specifica individuazione» ci ha sottolineato Antonio Ingroia nelle settimane successive alla sentenza abruzzese. L’ex pm, collaboratore stretto di Paolo Borsellino, è oggi anche avvocato di un imprenditore rumeno accusato di esser stato percettore di presunti investimenti di Massimo Ciancimino in Romania.
E negli anni scorsi ha dimostrato che alcuni «investimenti», finiti nel mirino della magistratura romana, erano stati disposti non da Ciancimino jr. ma da alcuni amministratori giudiziari autorizzati dalla magistratura palermitana, perché successivi ad un primo sequestro. Semmai alcuni abusi erano stati commessi dall’amministratore giudiziario Cappellano Seminara dietro autorizzazione dell’ex magistrata Silvana Saguto, poi condannata insieme a Cappellano Seminara a vari anni di carcere per corruzione ed altri reati dal Tribunale di Caltanissetta in primo grado nel processo relativo alla cosiddetta «sequestropoli».
«Sono personalmente convinto – ci ha dichiarato l’avvocato Ingroia riferendosi all’imprenditore rumeno di cui cura l’assistenza legale – che sia un processo totalmente fumoso nel quale non è stata portata nessuna prova che effettivamente ricostruisce questo flusso finanziario da Massimo Ciancimino, in qualche maniera erede del tesoro paterno (e così presentato dalla Procura di Roma) e che avrebbe poi riciclato in Romania». Interessi di Massimo Ciancimino per la Romania «è sufficientemente provato ma non è mai stato individuato. Su Vito Ciancimino alcune cose sono state ricostruite dalla Procura di Palermo, a partire da una società del gas e dagli incroci che portavano persino a Bernardo Provenzano, arrivando ad un buon livello di individuazione».
Metanizzazione, altri intrecci economici di società e personaggi riconducibili a Cosa Nostra, ormai provato essere avvenuto anche sull’appennino abruzzese già negli anni ottanta. Gli stessi anni in cui uno dei quattro cavalieri di Catania denunciati da Pippo Fava su I Siciliani fu attivo nel ripascimento delle coste abruzzese. Sul «tesoro di Vito Ciancimino» Antonio Ingroia ci sottolinea di ritenere che « avesse molto di più, mai davvero individuato. Massimo Ciancimino da erede in qualche maniera ha finito per beneficiare del tesoro accumulato da suo padre, non certo da lui». Le motivazioni della condanna per il reimpiego di questo tesoro sono state il tentativo del figlio di cercare di «preservarle dalle azioni dell’autorità giudiziaria».
Vicende che hanno la loro indubbia rilevanza, ci ha sottolineato l’ex pm antimafia, ma «Massimo Ciancimino rimane sempre una persona che coraggiosamente ha cercato di scrollarsi di dosso la fama mafiosa e il peso ingombrante che portava il padre, che mafioso certamente era, con un percorso che lo ha portato a raccontare a noi – mi riferisco ovviamente alla Procura di Palermo in cui ho esercitato la professione di magistrato – tanti retroscena che sono serviti per riavviare le indagini sulla trattativa Stato-mafia».
Senza le rivelazioni di Massimo Ciancimino, aggiunge Ingroia, «le indagini sulla trattativa sarebbero rimaste in un archivio della Procura di Palermo e non ci sarebbe mai stata un’acquisizione di verità sulla scellerata trattativa Stato-mafia. Di questo gli va dato merito, fermo restando che ha commesso degli errori e anche dei reati, perfino nelle dichiarazioni per accreditarsi di più eccedendo e raccontando cose rivelatesi poi non vere, per le quali è stato condannato per calunnia». Fatti accertati che non cancellano «la bontà di gran parte delle rivelazioni che ha reso e che, pur successivamente non ritenute processualmente utilizzabili dalla Corte d’Assise che ha condannato gli imputati in primo grado a prescindere da esse, senza quelle dichiarazioni non si sarebbe mai arrivati a questo punto».
Le indagini sulla trattativa Stato-mafia, ricorda Ingroia, «l’avevo già avviata precedentemente ma, ad un certo punto, sono stato costretto ad archiviarla per insufficienza di prove». Dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino l’indagine è stata riaperta e condotta da Ingroia personalmente fino al rinvio a giudizio, processo che è ora si sta svolgendo in Appello dopo essersi concluso in primo grado con la condanna di tutti gli imputati a pesanti pene.
In quest’intervista, che ci ha concesso nelle settimane successive alla sentenza abruzzese il dottor. Ingroia ha posto l’accento sull’affrancazione di Massimo Ciancimino dal passato mafioso del padre e la sua collaborazione con gli inquirenti. Cosa mai avvenuta per figli di appartenenti alle organizzazioni mafiose, anche di primissimo piano e colpevoli dei più efferati crimini.
Durante l’intervista il nostro pensiero non poteva che andare al terzogenito di Totò Riina, il boss dei boss di Cosa Nostra oggi defunto, autore di una biografia che esalta il ricordo del padre e – addirittura – presunti (indecenti per quanto ci riguarda) «valori familiari». L’anno scorso ci siamo occupati ripetutamente di questo libro, di quanto Riina jr continua a sostenere sui social network, su cosa è accaduto negli anni successivi alla sua famosa intervista nella trasmissione televisiva «Porta a Porta» e del suo soggiorno abruzzese fino a dicembre 2019.
Vicende che, dopo mesi di interruzione dell’esposizione mediatica, non sono solo passate. Ci siamo tornati negli stessi giorni.
«Sono tante le storie parallele ed è singolare l’accanimento dell’opinione pubblica contro Massimo Ciancimino mentre su altri c’è silenzio totale» la riflessione di Antonio Ingroia in chiusura dell’intervista.
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2021-01-14 12:03:58
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