Questa storia inizia il 3 luglio del 2015. Sono passati quasi sei anni da quella giornata particolarmente maledetta. I carabinieri bussano alla porta di Lorenzo Diana, già Senatore della Repubblica, per tre legislature, segretario della commissione Antimafia. Un uomo delle Istituzioni, impegnato da una vita a contrastare i clan della camorra casalese, nel suo territorio. A San Cipriano d’Aversa, in provincia di Caserta. La sua tenacia induce i criminali a minacciarlo in diverse occasioni. L’azione dei farabutti è costante e porta i camorristi a prendere una decisione definitiva: Lorenzo Diana deve morire. Arriva la condanna a morte. Nonostante le sue battaglie trentennali il Senatore diventa ostaggio di una giustizia ingiusta. Siamo nel Paese di Sciascia, dove tutto può succedere. E succede sempre di tutto e il contrario di tutto.
«Il ricordo di dolore di quella giornata – ha ricordato Diana su Articolo21.it – resta come una cicatrice che non si cancella. Da quel giorno un semplice avviso di garanzia sospese la mia vita privata, sociale, politica, istituzionale e niente potrà restituirmela, nemmeno il sopraggiunto provvedimento di archiviazione delle indagini.»
Due indagini e due avvisi di garanzia. Viene imposto il divieto di dimora nella sua regione di appartenenza, la Campania, e l’interdizione dai pubblici uffici. In poche ore è costretto ad abbandonare la sua abitazione, i suoi familiari, il suo territorio. Trattato come un pericoloso criminale. Come coloro che aveva combattuto in trent’anni di impegno civile e politico.
«Ha vissuto – ha scritto Roberto Saviano su l’Espresso di qualche giorno fa – osservando da vicino l’emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all’altro possa risvegliarsi l’attenzione dei media nazionali sul potere casalese, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sanno che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall’inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai».
Una vita, è giusto ribadirlo, fatta di lotte alla criminalità. Questa è la storia di un uomo messo alla gogna, per troppi anni. A dicembre il gip Giordano, su richiesta del pm Maresca della procura di Napoli, ha archiviato l’ultima delle due indagini. Relativa ad un ipotizzato abuso d’ufficio. La questione ruotava intorno alla nomina di un avvocato. «Che da presidente del CAAN, il Centro Agroalimentare di Napoli – spiega Lorenzo Diana -, avevo dovuto nominare per la difesa nel giudizio contro la società Cesap, appartenente ad un noto camorrista tuttora detenuto.»
Ma è l’altra indagine che infama ancora di più. Il presunto concorso esterno in associazione camorristica. «Mi veniva rivolta l’accusa di essere stato “facilitatore” del clan nella realizzazione della metanizzazione del mio territorio da parte della cooperativa CPL-Concordia, azienda leader del settore, nei primi anni 2000.»
Abbiamo sentito il senatore Lorenzo Diana, per raccogliere la sua testimonianza. E per capire come può accadere, in un Paese civile (?), tutto questo. Come è possibile passare, da un giorno all’altro, da una sponda all’altra. Da simbolo dell’Antimafia a colluso e corrotto, complice della camorra. Ovviamente, secondo le accuse infamanti. Miseramente cadute. «Mi sono sentito liberato di un’accusa infamante per me.»
Perché infamante?
«Molto infamante per me che ho speso un’intera vita nel combattere la camorra, l’illegalità, con sacrifici non indifferenti, e anche con seri rischi. Non tanto per la mia persona, ma anche per chi mi è stato vicino, per i familiari e per gli amici.»
Cosa ha provato in questi anni?
«Una amarezza congiunta alla serenità di sapere che ne sarei uscito a testa alta, perché sapevo di non aver nulla di cui pentirmi. Sapevo di non aver fatto nulla di illecito, sapevo di aver dato l’intera vita nella battaglia contro la camorra, quando lo Stato non c’era. Sapevo di aver dato tutto me stesso per accendere i riflettori su una zona oscura, su un territorio, su clan ignorati. E, grazie a Dio, con le nostre battaglie riuscimmo ad attirare l’attenzione della magistratura, dello Stato, dei media. E anche di Roberto Saviano che, con il suo libro Gomorra nel 2006, sicuramente ci ha dato una forte mano ad accendere i riflettori su una camorra molto pericolosa che, fino a pochi anni prima, lo Stato aveva ignorato.»
Come possiamo definire questa storia? Una svista? Un errore?
«Ho riflettuto molto su questo. È stato anche un tormento per me vedere quasi due facce dello Stato: da una parte quello Stato che mi ha tutelato per ben 21 anni con una scorta che non mi ha lasciato mai e anche quella mattina del 3 luglio, in cui fui raggiunto dagli avvisi di garanzia. Ero da una parte con la scorta che mi accompagnava e mi tutelava e dall’altra parte avevo i carabinieri che, invece, mi intimavano di lasciare la mia Regione, avendo ricevuto due misure cautelari. Una di divieto di dimora nella mia Regione e l’altra di interdizione dai pubblici uffici. Ecco, due facce dello Stato. E mi sono chiesto come sia possibile.»
Che idea si è fatto?
«Ho pensato che da sempre ci siano più facce dello stesso Stato. Falcone e Borsellino hanno conosciuto tante facce dello Stato, non solo di condivisione, di solidarietà e di sostegno. Ma anche di pezzi di Stato che li hanno contrastati. Ovviamente, nessun rapporto indebito con la mia persona con questi due grandi uomini della Repubblica.»
Come è stato possibile?
«Queste indagini erano doverose, non contesto di essere stato indagato. Nessun cittadino può essere al di sopra della legge e del controllo di legge. Però mi chiedo perché non si sia indagato presto, riscontrate le notizie che gli stessi pubblici ministeri hanno dichiarato infondate. Come mai non è stato fatto presto e bene un riscontro per liberare il campo. Ho dovuto toccare con mano che c’è stato un modo molto approssimativo, raffazzonato nel condurre le indagini. Addirittura con forzature e distorsione di documenti, arrivando a falsare la realtà. Arrivando a non riscontrare, nelle stanze dello Stato, delle procure, delle prefetture, nelle carte dei processi in cui avevo dato testimonianza, le minacce subite.»
Possiamo spiegare meglio questo aspetto?
«Nel fascicolo delle indagini sono state omesse delle dichiarazioni che chiudevano la partita subito.»
Che significa?
«Vengono utilizzate delle dichiarazioni molto fumose di alcuni collaboratori di giustizia, che io avevo combattuto quando loro erano boss. Quegli stessi boss che avevano partecipato al vertice del clan che decise la mia condanna a morte. Avendoli combattuti non era molto difficile cercare di chiedersi se lo facessero per vendetta. Ma erano dichiarazioni fumose, come ha avuto a dichiarare sulla stampa, una settimana dopo l’avviso di garanzia, il PM che indagava su questi personaggi.»
Cosa dichiarò questo magistrato?
«Che questi collaboratori di giustizia non avevano detto nulla su Lorenzo Diana.»
E cosa succede?
«Successivamente abbiamo scoperto, io e il mio avvocato, che uno dei collaboratori che veniva citato nelle indagini, il braccio destro di Michele Zagaria, l’ultimo più potente capo del clan dei casalesi, interrogato dal pubblico ministero Maurizio Giordano, nel carcere di Carinola, ebbe a dichiarare quali fossero i politici amici del clan, ovviamente non riguardava me, ma quando il PM incalza il collaboratore e chiede se avessero qualche politico nemico, il collaboratore cita solo il mio nome.»
Cosa dice il “pentito”?
«Che Lorenzo Diana era inavvicinabile ed era sempre in guerra contro il clan. Questa dichiarazione, che è stata fatta contestualmente alle indagini svolte sul mio conto, perché non è stata inserita dentro il fascicolo?»
Chi è il responsabile di questa “omissione”?
«Penso che la polizia giudiziaria, quella che ha svolto le indagini, sia stata molto frettolosa. E mi sono posto qualche interrogativo.»
A quale conclusione è arrivato?
«Ho avuto un rapporto storico di collaborazione con le forze di polizia, con l’Arma dei carabinieri, con i magistrati. Alla fine penso che ci sia qualche elemento che desta inquietudine. Vedo una specie di deriva autoritaria in alcuni pezzi di forze di polizia, che stimo molto. Che ho visto essere molto capaci e al servizio dello Stato. Ma ci sono dei pezzi, anche purtroppo della magistratura, che si ritengono essi stessi la legge.»
Quindi, per capire bene, c’è stata una manina che ha sottratto delle prove?
«Non penso che ci sia stata una manina o un disegno. Penso, invece, che questa concezione autoritaria di ritenersi essi stessi la legge e tutto il resto della società, della politica, delle Istituzioni e, anche, dell’associazionismo antimafia non valga nulla, che abbia sempre connivenze, rapporti di collusione. Questo pregiudizio culturale porta a fare degli errori micidiali. Non penso ad un complotto, ma questo pregiudizio porta a fare passi frettolosi che vanno a confermare che la società è corrotta e persa, che la politica è tutta compromessa, che nelle Istituzioni e, anche, nel mondo antimafia quando qualcuno fa qualcosa lo fa sempre per altri reconditi motivi. La mia vicenda ha avuto grande clamore.
Da cittadino incolpevole, innocente, come riconoscono i magistrati che hanno indagato, ho dovuto subire due misure cautelari, sono stato allontanato da casa come un bandito, sono stato allontanato dalla direzione del Centro Agroalimentare di Napoli perché risultavo colpevole di nulla, come si è scoperto. Sono stato sottoposto ad un processo mediatico tremendo. Fui sbattuto nei telegiornali nazionali, su tutti i giornali italiani per anni, non per qualche giorno, come il mostro che era stato scoperto essere un falso paladino dell’anticamorra che, invece, aveva connivenze. Queste sono le misure che ho dovuto subire, che non penso nascano da complotti, ma da pregiudizi che sono pericolosi per la giustizia. Ecco perché denuncio una deriva autoritaria in alcuni pezzi delle forze di polizia e della magistratura. Un pregiudizio moralistico.»
Lei si riferisce agli avvisi di garanzia?
«Negli avvisi di garanzia ci sono tre definizioni nei miei riguardi che non hanno alcun supporto giuridico che fanno a pugni con la legge. Vengo definito una volta come “personalità doppiamente trasgressiva”, un’altra volta come “persona senza remore a commettere reati” e poi, con una definizione un po’ risibile, “solo formalmente incensurato”.
Cosa significa “solo formalmente incensurato”?
«Non lo so, non so cosa significa in italiano e nel linguaggio giuridico. Se sei incensurato, e lo sono, non puoi esserlo solo formalmente. Queste tre definizioni nascono da un pregiudizio moralistico e dal ritenersi come tribunale morale sui cittadini. Questo è accaduto nel corso delle indagini preliminari, quando loro non sapevano ancora nulla, stavano ancora verificando. Hanno sparato su di me giudizi moralistici, violando la legge. C’è ancora qualche pezzo di magistratura e di forze di polizia che si erge a tribunale morale. Ecco perché ho parlato di un virus di autoritarismo e carrierismo.»
Servivano le misure che le sono state comminate?
…
Prima parte/continua
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2021-01-14 19:11:17
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