Pasolini e l’Arte un binomio inscindibile, che si esplica e si conferma lungo tutto il suo percorso esistenziale in un triplice intreccio che vede l’interesse ammirato di Pasolini per la Storia dell’Arte italiana, soprattutto del Trecento, del Quattrocento e del Cinquecento, con l’uso nella sua composizione-produzione filmica di figure/personaggi, tratti da opere particolarmente amate.
Della molteplice produzione pasoliniana fanno parte i lavori pittorici e artistici che il regista dipinse ed elaborò in schizzi e quadri.
Questo suo stare e vivere nel mondo dell’Arte caratterizzano la composita personalità di Pasolini scrittore/regista/poeta/intellettuale, dotato di un occhio fortemente analizzatore della realtà in toto, quella più temporale ma anche quella atemporale nella sua dimensione esistenzialista con costanti implicazioni sociali che hanno ispirato ed ispirano ancora gli artisti di tutto il mondo da Pistoletto a Kounellis, Accardi, Fioroni, Dessì, alla cantante e poetessa americana Patti Smith, all’artista Ernest Pignon-Ernest, decano della Street-Art che ricordiamo per quell’opera Pasolini, Pietà, Roma 2015 di struggente realtà e di intensa interpretazione simbolica.
Per entrare in questa sua passione, che formò il Pasolini giovane, sin dal suo primo incontro con l’Arte, componendo quindi nel tempo il suo universo espressivo (studiò Estetica delle Arti figurative all’Università di Bologna, professore Roberto Longhi, figura di gran rilievo e considerato da quel momento in poi il suo maestro-un padre di formazione irrinunciabile e unico, definito un mito “sguainato come una spada” per il suo modo rivoluzionario di parlare d’arte ) è necessario soffermarsi su una sua dichiarazione “Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica ma figurativa. Quello che ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto, che sono i pittori che amo di più; assieme a certi manieristi, per esempio il Pontormo. E non riesco a concepire immagini di paesaggi, composizione di figura, al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica”.
Gli studiosi e critici pasoliniani parleranno anche di manierismo pasoliniano con l’uso di contaminazioni per uscire dalla vero-somiglianza del reale, che è sempre manchevole e contraddittoria, e nello stesso tempo è vista come possibilità di possedere e di esprimere la nostalgia di quanto perduto.
Nel Decameron ( 1971) Pasolini interpreterà un allievo di Giotto e si veste come il Vulcano (da La Fucina di Vulcano, Roma 1630) con fascia a circondare il capo e grembiule di cuoio, dipinto da Velàzques – altro pittore amato/studiato soprattutto per l’opera Las Meninas – e vede questa sua partecipazione al film come espressione di una “coscienza non puramente estetica, ma veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale”, in Mamma Roma ( 1962) Pier Paolo Pasolini ricompone in una drammatica e crudele scena finale un noto dipinto di Andrea Mantegna il Cristo Morto, ne La Ricotta (1963) trasforma opere pittoriche in tableaux vivants, mette in scena opere pittoriche inserite nella trama del film, la Deposizione di Cristo di Rosso Fiorentino e la Deposizione del Pontormo, che in un contesto filmico in bianco e nero, sono le uniche a colori come a voler centralizzare e isolare nello stesso tempo queste immagini le quali sottolineano anche il senso tragico/grottesco della storia raccontata e i personaggi scelti che in fondo sono miscredenti con un che di diabolico (ricordiamo il ricorso costante di Pasolini ad attori della strada e alla storia umile e umiliata degli emarginati e del sottoproletariato).
Nelle note di regia Pasolini scrive “è come se io in un quadro giro lo sguardo per vedere altro e meglio i particolari” espressione in stretta connessione e coerenza con la poetica del suo cinema ineguagliabile che è “lingua scritta della realtà” e con la sua testimonianza pubblicata in Le regole dell’illusione quando scrive “Tutte le opere sono autobiografiche, anche quelle in cui non si possono decifrare elementi autobiografici espliciti[…]”.
In anticipo con i tempi e soprattutto con i suoi tempi Pasolini usò e spalmò nella sua stessa vita una forma di costante e di specifica contaminazione tra arte, scrittura, poesia, vita, cinema, critica dando vita a quella figura iconica che si strutturerà nel corso della sua troncata esistenza, paragonata, per rimanere nel mondo amato da Pasolini, a Caravaggio: artista solitario, incompreso, sofferente, che spesso dava scandalo.
E allora succede che quando un’immagine entra in maniera forte e continuativa nel pensiero popolare essa diventa un’icona che ha in sé il potere di evocare e di comunicare immediatamente un’idea e un riferimento veicolanti un messaggio.
Gli occhiali scuri, o gli occhi come due acini di uva matura, una camicia bianca e un volto ossuto, rugoso e contemplativo (con i segni della difficoltà di vivere e della tragedia affioranti su di esso) sono gli elementi connotativi ed essenziali che immediatamente fanno pensare a Pasolini, figura colta, complessa e centrale nella Storia letteraria e cinematografica europea che “aveva sognato tutta un’epoca” (Moravia).
Solo Federico Fellini, nel mondo del cinema, ha una sua precisa collocazione iconica, cappello e sciarpina rossa annodata al collo, ma per Pasolini e la sua figura rielaborati dal pensiero collettivo, l’impatto è più netto, più riconoscibile e di per sé già parte di una Popular Art, un ideale soggetto pittorico per gli interpreti della Pop art, del suo iniziatore e massimo interprete, Andy Warhol. Due registri espressivi caratterizzano poi il Pasolini pittore, che usò soprattutto matite, carboncini, gesso, acquerello su carta ma anche olio: gli schizzi e i disegni, ispirati ai suoi amici di lavoro e di vita come la Callas (tecnica mista su carta) e Roberto Longhi, sono più morbidi nella linea e nell’espressione, i disegni e i quadri ispirati alla sua fisicità (Autoritratto con la vecchia sciarpa, olio su faesite 1947; Autoritratto con il fiore in bocca, olio su faesite, 1947) hanno tratti più angolosi e rifiniti da sottolineature di contorni in nero riconoscibili anche in Narciso, tempera a pastello su carta, 1947; Donna con fiore azzurro, tempera e gessetti su carta, 1947; Giovane che si lava, tempera e pastello su cartone, 1947. Nella Torre di Chia, nelle Terre della Tuscia, Pier Paolo Pasolini si recava per scrivere e ideare ma anche per disegnare e dipingere e forse ingannare – in questo luogo eletto come rifugio – “il suo disarmato oblio della speranza”.
Il testo critico è tratto dal Volume ideato e curato da Esther Basile Pasolini Indomito corsaro. Pubblicato nel 2016 per la casa editrice Homo scrivens, si ripropone in questo centenario dalla nascita con rinnovato interesse e acutezza.
Il libro vede la partecipazione di Alfredo Baldi, Marosia Castaldi, Roberto Deidier, Alessandra Di Tommaso, Cinzia Dolci, Rita Felerico, Anna Pasqualina Forgione, Gioconda Marinelli, Elio Pecora, Walter Santoro, Lucia Stefanelli Cervelli, Giuseppina Dell'Aria, Maria Marmo, Arnolfi Petri, Maria Rosaria Selo; in Appendice Fallaci e Pasolini- Maraini e Pasolini; Foto- La Torre di Chia di Maria Rosaria Rubulotta; in copertina foto tratta dall'archivio privato di Elio Pecora (Premio Viareggio 1957).
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2022-05-24 18:41:30
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