Il 30 gennaio nel primo pomeriggio è uscita la notizia della condanna della Corte Europea dei Diritti Umani contro l’Italia per la “terra dei fuochi“: lo Stato non ha mai protetto i suoi cittadini. Atti e fatti dimostrano che non solo non li ha mai difesi ma, anzi, pezzi dello Stato sono stati in combutta con imprenditori ecomafiosi e clan.
La sentenza è arrivata dieci giorni dopo un doppio anniversario che documenta complicità e connivenze: il 19 gennaio è stato l’undicesimo anniversario della morte di Michele Liguori, vigile urbano pioniere nella lotta alle ecocamorre come Roberto Mancini (morto anche lui nel 2014), il 20 gennaio è stato l’anniversario della condanna definitiva in cassazione di Cipriano Chianese, l’imprenditore-avvocato-politico considerato l’inventore delle ecomafie. La prima informativa contro Chianese, nel 1996 ed insabbiata per tanti anni, fu redatta da Roberto Mancini.
Poche ore dopo l’uscita della notizia della sentenza a Vasto si è tenuto un incontro su trent’anni di “Rapporti Ecomafie” organizzato da Legambiente Abruzzo. Relatori la Comandante della Capitaneria di Porto di Vasto Rossella D’Ettorre (abbiamo pubblicato il 4 febbraio l’intervista che ci ha rilasciato), Gianluca Casciato, vicepresidente e responsabile affari legali Legambiente Abruzzo, Francesco Chiavaroli, direttore dell’area tecnica di Arta Abruzzo, Riccardo Fusaro, comandante del nucleo carabinieri forestali di Vasto, e Gabriele Barisano, assessore all’ambiente del comune di Vasto, moderati da Michele Ciffolilli, presidente del circolo del vastese di Legambiente.
«Temi come gli ecocrimini possono sembrare lontani dal nostro territorio ma non è così – è stata netta e decisa la riflessione condivisa dalla comandante della Capitaneria di Porto di Vasto Rossella D’Ettorre – è un tema molto più vicino di quel che si può pensare».
Nel 2017 in una serata a Vasto per ricordarlo sottolineammo come la “terra dei fuochi” non è un perimetro geografico ma un sistema economico criminale. E l’Abruzzo ne è una plastica dimostrazione, come ha ribadito nell’intervista che ci ha rilasciato e pubblichiamo oggi il vicepresidente e responsabile affari legali Legambiente Abruzzo Gianluca Casciato.
Nell’aprile 2021 un’imponente operazione della Guardia di Finanza di Foggia e dei Carabinieri di Bari ha coinvolto il territorio di Vasto.
Il traffico di rifiuti stroncato dalle forze dell’ordine si muoveva tra Puglia, Campania e la provincia di Chieti. Sequestrati beni mobili ed immobili, quattro quote societarie, 4 fabbricati, 9 terreni, 4 polizze vita e 38 rapporti finanziari per un valore di 1.635.000 euro circa. Oltre a 13.100 tonnellate di rifiuti speciali stoccati abusivamente in vari capannoni tra cui uno a Vasto, nella zona industriale di Punta Penna, di 1.250 metri quadrati.
I rifiuti accumulati in maniera illecita, sottolinearono gli investigatori, a Punta Penna avevano reso l’aria irrespirabile nella zona.
Il porto di Pescara, come abbiamo già ricordato nell’articolo del 4 febbraio, nella “Relazione sull’attività delle forze di polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata” relativa al 2015, comunicata alla Presidenza del Senato il 4 gennaio 2017, venne definito «il più importante dell’Abruzzo e per i suoi accresciuti
scambi commerciali con i Paesi dei Balcani occidentali costituisce uno snodo cruciale per i traffici di sostanze stupefacenti e di esseri umani» e richiamo dell’intera provincia per «sodalizi mafiosi interessati al reinvestimento di capitali illecitamente accumulati». Inaugurando l’anno giudiziario nel 1997 il procuratore generale Bruno Tarquini affermò che «in questa regione la cosiddetta fase di rischio è ormai superata e si può parlare di una vera e propria emergenza criminalità, determinata dall’ingresso di clan campani e pugliesi anche nel tessuto economico della Regione».
Due anni dopo la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, nella relazione approvata il 4 marzo 1999, definì l’Abruzzo «geograficamente sita all’ideale snodo dei traffici tra nord e sud», «considerato di particolare interesse dalla criminalità organizzata la quale, nello specifico settore dei rifiuti, appare avere spostato il flusso dei traffici dalle rotte tirreniche nord-sud a quelle adriatiche» e dove giungono «traffici di rifiuti pericolosi prodotti nel nord dell’Italia, trasportati da imprese vicine alla criminalità organizzata, smaltiti in maniera illecita e distribuiti anche su altre aree del territorio nazionale». Otto anni dopo l’annuale Rapporto della Direzione nazionale antimafia denunciò che «l’Abruzzo era il luogo in cui la criminalità organizzata aveva trovato terreno fertile per il riciclaggio di denaro sporco».
Esemplificative di cosa accadde negli anni novanta le inchieste Eco, Ebano e Humus. La prima documentò che dal giugno 1994 al marzo 1996 i casalesi acquistarono rifiuti speciali derivati dalla produzione di metalli pesanti, tramite intermediari e con documenti falsi, in Piemonte e Lombardia per farli arrivare in centri di stoccaggio in Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo da dove venivano poi spediti in discariche abusive nelle province di Caserta, Benevento e Salerno.
Un giro di rifiuti speciali e industriali provenienti dalla Lombardia, ma questa volta anche smaltiti nelle cave abbandonate della Marsica, fu al centro di Ebano nel dicembre 1996. E sempre nella Marsica trovavano approdo i rifiuti industriali dell’organizzazione criminale sgominata nel 1998 con l’operazione Humus: i Carabinieri e il Corpo Forestale dello Stato accertarono in soli 23 giorni l’arrivo di 440 tonnellate di fanghi provenienti da industrie di Caserta, Napoli, Frosinone, Rieti, Roma, La Spezia e Isernia.
La Commissione ecomafie definì quasi di scuola il caso dei rifiuti urbani del comune di Milano inviati in Abruzzo: «l’azienda municipalizzata di quel capoluogo non smaltiva direttamente in Abruzzo, atteso il divieto fissato da una legge regionale» ma «con una serie di appalti a società commerciali, dei quali si è interessata la procura presso il tribunale di Milano, incaricava le medesime società di dividere i rifiuti tra secchi ed umidi. Tutti i rifiuti erano, quindi, inviati per il trattamento e per la cernita in Abruzzo; una volta entrati nello stabilimento il rifiuto acquistava cittadinanza abruzzese e di conseguenza, per circa il 95 per cento, veniva smaltito come rifiuto in quel sito». La relazione lanciò un vero e proprio grido di allarme: «sembra in via di accelerazione il tentativo, da parte della camorra campana e della mafia siciliana, di infiltrarsi nel tessuto economico e politico del territorio per il tramite di società di capitali costituite e rappresentate da interposte persone; ciò fa indubbiamente registrare un salto di qualità da parte della criminalità organizzata locale, che è sempre più presente nel tessuto economico regionale». Secondo i commissari la regione aveva «una particolare appetibilità economica ed è oggetto di attenzione da parte dell’imprenditoria deviata e della criminalità organizzata, che in questo territorio ricercano nuove frontiere per investire il denaro proveniente dalle attività illecite».
Il 1° aprile 1994 il Nucleo operativo ecologico, allora guidato dal compianto Guido Conti, sequestrò una megadiscarica da 90 mila tonnellate di rifiuti definita «il primo caso di smaltimento illegale di rifiuti tossici e pericolosi fatti passare come attività lecita e produttiva». Il terreno era di proprietà di una ditta che aveva avuto dalla Regione Abruzzo tutte le autorizzazioni necessarie per la produzione di compost dai liquami derivanti dallo svuotamento delle fosse civili, il Corpo forestale dello Stato accertò che nell’area avveniva tutt’altro: i rifiuti rinvenuti provenivano da aziende chimiche, farmaceutiche, tessili e conciarie del Trentino e della Campania, dalla provincia di Trento alla provincia di Salerno. In quel periodo, addirittura, i casellanti autostradali scioperarono per protestare contro il cattivo odore nella zona dei rifiuti tossici, e per il continuo passaggio dei camion diretti alla discarica, una ricerca scientifica concluse che il terreno ha «ricevuto forti mutamenti dai materiali tossici che sono stati stoccati. Ma anche la vegetazione è stata influenzata dalla composizione chimico-fisiche del materiale presente nei cumuli di rifiuti».
Una vicenda che in parte è simile a quanto stava avvenendo a Tollo, in provincia di Chieti, dove nell’area dell’ex fornace Gagliardi nei pressi delle sponde del torrente Venna sono stati seppelliti almeno 30 mila tonnellate di rifiuti di ogni tipo in due capannoni tra cui scarti farmaceutici e chimici, scorie sanitarie provenienti dalla Francia e rifiuti industriali provenienti dal Nord Italia. L’allora procuratore generale di Chieti, Nicola Trifuoggi, in un’audizione parlamentare, affermò che in quell’area erano giunti anche molti Tir «carichi di rifiuti radioattivi provenienti dalla Francia».
I Noe sequestrarono la discarica di Tollo il 2 febbraio 1996. A cui seguirono altri sequestri di terreni a Chieti, quasi sul greto del fiume Pescara, e in contrada Aurora a Cepagatti, dove l’attività di sversamento stava proseguendo. L’attività illegale avvenne ininterrottamente dal 16 maggio 1995 fino al sequestro. «I rifiuti uscivano dalle fabbriche e poi si procedeva con il solito sistema della triangolazione. Si fermavano una notte a Marghera e il mattino successivo lo stesso camion partiva con una bolla diversa con la dicitura residui riutilizzabili. Un camion è stato seguito dalla partenza fino a Ripa Teatina» raccontò Nicola Trifuoggi che, il 22 maggio 1996, inviò alla Commissione parlamentare competente anche una consulenza tecnica dalla quale emerse che «in considerazione dello stato dello stabilimento e dei rifiuti in esso accumulati, dai quali si sviluppa ammoniaca ed acetilene, con conseguente sviluppo di gas tossici e la cui movimentazione è causa di elevatissima polverosità, la situazione può costituire un pericolo per la salute degli operatori, per gli insediamenti circostanti e per l’ambiente, considerato che non sono presenti sistemi di convogliamento e abbattimento di tali gas».
Un medico di Miglianico, comune nei pressi di Tollo, ha pubblicamente riportato che dopo il 1995 sono esplosi i casi di «cancri dell’encefalo, cancri della vescica, cancri prostatici e tiroidei, sarcomi in pazienti giovanissimi» mentre un abitante di Tollo raccontò in maniera anonima alla stampa che «i camion di rifiuti avevano le targhe di Venezia, Verona, Padova, Brescia. Scavarono due fosse profonde da una parte e l’altra del Venna. Dalla terra usciva un fumo bianco come una nebbia acida e non respiravamo. La nostra protesta scoppiò nel 1996 dopo 3 aborti forzati. Capitò anche a mia moglie incinta al sesto mese».
Negli anni successivi alla scoperta della discarica i rifiuti furono accantonati in enormi sacconi definiti «big bags» dove rimasero, sotto tutte le intemperie e nessuna sicurezza, per un lunghissimo periodo a cui è seguito l’inizio della bonifica dell’area e la loro rimozione.
«La regione è stata, inoltre, al centro di indagini su traffici illeciti di rifiuti nei quali sono risultati coinvolti imprenditori senza scrupoli che potrebbero rappresentare un’efficace testa di ponte per i gruppi camorristici» scrisse la Direzione Investigativa Antimafia una decina di anni fa. 80 tonnellate di rifiuti pericolosi rinvenuti in due capannoni industriali nella Marsica nel nucleo industriale di Avezzano e a Luco dei Marsi.
La scoperta di un maxi traffico di rifiuti, provenienti da varie regioni e il cui approdo finale era la Marsica, conquistò la cronaca regionale nel gennaio 2015. Poco più di un anno dopo la cronaca venne nuovamente conquistata da una immensa discarica, 40 ettari, 20 volte il Colosseo, sempre nella provincia aquilana.