Il recente G20 ha offerto l’ennesima prova di come la comunità internazionale fatichi a trovare soluzioni comuni su temi fondamentali come l’economia globale e i diritti dei lavoratori. In questo scenario l’Italia continua a distinguersi negativamente per il livello dei salari, tra i più bassi d’Europa, e per una gestione del lavoro che sembra ancorata a logiche del passato.
Mentre altri Paesi, come la Spagna, provano ad innovare con politiche che puntano a migliorare la qualità della vita dei lavoratori, in Italia si assiste al solito immobilismo. Il governo rivendica risultati economici che faticano a tradursi in un effettivo miglioramento delle condizioni di chi lavora. Il problema non è solo il livello dei salari ma anche la precarietà che accompagna una fetta sempre più ampia della popolazione. Il lavoro stabile sembra ormai un miraggio per molti giovani, costretti ad accettare stipendi che non consentono di costruire un futuro dignitoso. Una generazione bloccata tra contratti a tempo determinato, stage non retribuiti e prospettive sempre più incerte.
Dall’altra parte del Mediterraneo, la Spagna dimostra che un altro modello è possibile. L’aumento del salario minimo, la riduzione dell’orario di lavoro senza tagli salariali ed altre misure volte a migliorare il benessere dei cittadini sono il segnale di una politica che non considera il lavoro come un sacrificio ma come un diritto da tutelare. Non a caso, la disoccupazione giovanile spagnola è in calo, mentre in Italia resta stagnante, bloccata da un sistema che non riesce a valorizzare il capitale umano. Un sistema in cui il merito sembra pesare meno della raccomandazione giusta e dove la fuga dei cervelli è ormai un fenomeno consolidato, con migliaia di giovani talenti che scelgono di costruire il loro futuro altrove.
E poi ci sono i migranti, vittime silenziose di un sistema che li usa come capro espiatorio per giustificare il malcontento sociale. Penalizzati da politiche restrittive, spesso costretti a lavorare in condizioni di sfruttamento, diventano il simbolo di un’Italia che invece di affrontare i problemi con pragmatismo preferisce cavalcare paure e stereotipi. La chiusura e l’inasprimento delle regole sull’immigrazione non fanno che alimentare un mercato del lavoro sommerso e privo di tutele, aggravando ulteriormente la situazione generale. Una situazione in cui la manodopera straniera è essenziale in settori come l’agricoltura e l’edilizia, ma viene trattata come un problema e non come una risorsa.
Nel frattempo, la politica continua a vendere illusioni. L’esecutivo di Giorgia Meloni rivendica i propri risultati economici, ma per chi? Se il Paese continua a essere tra gli ultimi in Europa per salari reali, se il costo della vita aumenta e il potere d’acquisto delle famiglie si riduce, di quali successi stiamo parlando? Un’economia che cresce solo sulla carta non è una vittoria, ma un inganno. Senza una redistribuzione più equa delle risorse e un impegno serio per contrastare il precariato, l’Italia rischia di diventare sempre più un Paese per pochi, in cui il divario tra chi può permettersi una vita dignitosa e chi lotta per arrivare a fine mese si allarga sempre di più.
L’Italia ha bisogno di una visione più ampia, di un progetto che non si limiti a tamponare le emergenze, ma che guardi al futuro con coraggio. Continuare a rivendicare successi inesistenti non serve a nulla se la qualità della vita della popolazione non migliora. Il governo Meloni, se davvero vuole lasciare un segno, dovrebbe iniziare a investire seriamente nelle persone, garantendo salari dignitosi, stabilità lavorativa e politiche inclusive. Servono riforme strutturali, non annunci propagandistici. Servono risposte concrete, non slogan.
Senza questo cambio di rotta, il Paese rischia di restare indietro, ancora una volta. E, come sempre, a pagare il prezzo saranno i cittadini.
Immagine creata con AI