Viviamo in un’epoca in cui i confini del mondo sono segnati da filo spinato, carri armati e missili. I folli che governano il mondo sembrano più interessati al controllo che al futuro, più sedotti dalla geopolitica che guidati da un’etica.
Mentre milioni di persone fuggono da guerre dimenticate, il riscaldamento globale si trasforma in emergenza quotidiana e le disuguaglianze si allargano come voragini, i potenti – quelli veri – brindano nei vertici blindati, giocano a chi ha il bottone più grosso (nucleare o economico) e si scambiano accuse.
Non è questione di ideologia, ma di irresponsabilità trasversale. A Est come a Ovest, a Nord come a Sud, lo scenario si ripete: leader circondati da corti osannanti, chiusi in bolle d’informazione autoreferenziale, convinti che il consenso si conquisti col pugno e non col pensiero. Uomini (e qualche donna) che vedono il mondo come una scacchiera, ma dimenticano che le pedine siamo noi: cittadini, lavoratori, madri, studenti, popoli interi.
La guerra – oggi – è ovunque: nei conflitti regionali, nella propaganda, nei mercati finanziari. Ma la più subdola è quella alla verità: anestetizzano le coscienze, ci bombardano di distrazioni, ci vogliono passivi e polarizzati. E se qualcuno osa alzare la voce scatta la macchina del fango o la censura.
Eppure, qualcosa bolle sotto la superficie. Le piazze si riempiono, le voci indipendenti crescono, le nuove generazioni – nonostante tutto – non vogliono arrendersi all’apocalisse programmata. Il giornalismo, quando è libero, può ancora rompere il silenzio. E la parola, quando è onesta, può ancora scardinare i dogmi del potere.
Serve coraggio. Serve memoria. Serve lucidità. Perché se è vero che i folli governano il mondo, è altrettanto vero che il silenzio di chi guarda può diventare complicità.
E noi? Vogliamo restare spettatori o svegliarci prima che sia troppo tardi?
IMMAGINE AI
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