Ottant’anni. Un arco di tempo che basta, in una vita umana, per dimenticare. Eppure non dovrebbe. L’80° anniversario della Liberazione d’Italia dal nazifascismo, che cade in un contesto nazionale segnato da lutti, silenzi istituzionali e un sempre più diffuso senso di disincanto, ci impone una riflessione non solo storica, ma soprattutto politica, culturale, civile.
Il 25 aprile 1945 è stato il giorno in cui il popolo italiano, attraverso la resistenza armata dei partigiani, la mobilitazione di donne e uomini comuni, e il contributo degli Alleati, disse basta a una dittatura ventennale, alla guerra, alla paura, al controllo totale della vita privata e pubblica. Fu il giorno in cui l’Italia, con fatica e sangue, cominciò a riscrivere sé stessa, gettando le basi della Repubblica e della Costituzione. Quel giorno non è solo una ricorrenza storica: è il fondamento della nostra democrazia. O almeno dovrebbe esserlo.
E invece quest’anno ci si chiede se la memoria non stia diventando, per molti, una fastidiosa incombenza. La scomparsa del Papa ha certamente colpito un’intera nazione e, com’è giusto che sia, il lutto è stato proclamato. Ma la scelta di estendere il silenzio istituzionale fino al 26 aprile ha posto un interrogativo scomodo e necessario: quanto vale ancora, per questo Paese, la celebrazione della Liberazione?
Il Ministro per la Protezione Civile, Nello Musumeci, ha invitato a “festeggiamenti sobri”, nel rispetto del dolore collettivo. Ma dietro a questa scelta, che appare formale e motivata, serpeggia un sospetto più profondo: è un caso che, proprio nell’anno dell’80° anniversario, si chieda di abbassare i toni? È solo una coincidenza che in un clima di crescente rivalutazione del Ventennio e di revisionismo strisciante, le piazze dell’antifascismo vengano invitate al silenzio?
È lecito domandarsi se non ci sia un sottile tentativo di disinnescare l’impatto simbolico e politico del 25 aprile, di contenerne la portata. E qui entra in gioco un altro elemento fondamentale: il ruolo dei giovani. I ragazzi nati dopo il Duemila non hanno conosciuto il mondo del dopoguerra, né le lotte per i diritti civili. Non hanno memoria diretta, spesso neanche familiare, di cosa sia stata la dittatura fascista. Per loro la parola “fascismo” rischia di essere un’etichetta vaga, usata troppo spesso per squalificare l’avversario, svuotata di contenuti concreti.
Eppure, proprio perché non hanno radici dirette, i giovani dovrebbero essere i più affamati di verità. Dovrebbero essere messi in condizione di conoscere, esplorare, discutere. Invece, spesso, vengono lasciati soli nel deserto di una comunicazione istituzionale debole, frammentata, scolastica. Vengono scoraggiati dal partecipare. Gli si insegna la Storia, ma raramente la si racconta come qualcosa che li riguarda oggi. Come se la libertà fosse un dato di fatto, un bene scontato. Non lo è.
Quando vediamo giovani disillusi, poco partecipativi, apatici, forse dovremmo chiederci chi li ha traditi. Perché non sono loro ad aver smesso di credere, ma siamo noi — adulti, educatori, politici, intellettuali — ad averli delusi, offrendogli spesso una memoria ripiegata su se stessa, autoreferenziale, lontana.
La Resistenza non fu un blocco monolitico: fu conflitto, fu scelta, fu dissenso. Fu pluralismo in atto, lotta tra diverse visioni del futuro unite però da una certezza comune: quella di volere un’Italia libera, democratica, giusta. Se oggi la memoria della Resistenza diventa solo una cerimonia di palazzo o una commemorazione depotenziata dal lutto, stiamo tradendo quello spirito.
Questo 25 aprile, allora, potrebbe essere il momento per rimettere al centro il significato profondo della Liberazione. Per chiederci se stiamo davvero celebrando una conquista, o se stiamo semplicemente evitando di disturbare un equilibrio precario. Per domandarci se il “festeggiare in modo sobrio” non sia, in fondo, un modo elegante per tenerci sotto controllo. Per non farci reagire. Per non farci domande.
Eppure la Storia ci insegna che ogni volta che una generazione rinuncia alla propria voce, qualcun altro parla al suo posto. La democrazia non è mai stata un’eredità immutabile, ma un organismo vivo, che va nutrito ogni giorno con consapevolezza, confronto, passione.
Non lasciamo che l’80° anniversario della Liberazione si perda in un silenzio imposto. Alziamo la voce, con rispetto ma con fermezza. Ricordiamo che la libertà, quando non viene celebrata, finisce per essere dimenticata. E quando viene dimenticata, può essere tolta.
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