Sarà che ormai siamo assuefatti al ridicolo. Sarà che, come accade nei sogni lucidi, vediamo l’assurdo manifestarsi davanti ai nostri occhi, eppure restiamo immobili, incapaci di ribellarci davvero.
Eppure, davanti al funerale del Papa — evento che avrebbe dovuto essere il massimo esempio di compostezza, solennità, spiritualità — ci siamo ritrovati ancora una volta spettatori passivi di una messinscena mondiale.
Non c’era bisogno di essere analisti raffinati per percepirlo: bastava guardare. Bastava avere ancora occhi liberi da quel filtro opaco che ormai tutto normalizza.
Nel silenzio delle navate, là dove avrebbe dovuto regnare il raccoglimento, ecco che invece si consuma l’ennesimo copione da teatro politico: Donald Trump e Volodymyr Zelensky, faccia a faccia, seduti su due delle tre sedie preparate con cura.
Tre sedie, sì, come mostrano chiaramente i filmati ufficiali: una regia precisa, programmata. Una terza sedia attesa, vuota, simbolica. Doveva esserci anche Emmanuel Macron. Un’iconografia perfetta per i titoli dei giornali e per i rotocalchi internazionali: “I grandi si parlano, anche davanti al dolore”.
Ma il grande spettacolo della diplomazia globale si è sgonfiato come un pallone bucato. Rimangono loro due, soli, in una scena che più che di speranza sa di vuoto, di disperazione esibita, di teatro stanco. Sorrisi di circostanza, strette di mano forzate, sguardi costruiti. E la sensazione che nulla, ma proprio nulla, fosse autentico.
Uno spettacolo osceno, architettato ad arte, probabilmente per occupare le prime pagine e rilanciare le narrazioni di chi — oggi più che mai — ha bisogno disperato di visibilità.
Trump agita la sua immagine da uomo forte, da “risolutore di conflitti” proprio mentre semina divisioni. Zelensky, sempre più isolato, prova a ritagliarsi ancora uno spazio di centralità in un Occidente che, sotto sotto, comincia a considerarlo un fardello.
E noi, il popolo, gli spettatori, gli illusi, lì fermi a guardare, sperando ancora che dietro le strette di mano, gli sguardi e le parole ci sia qualcosa di vero.
Sperando che la pace sia più di una parola abusata nei discorsi ufficiali. Sperando che, almeno di fronte alla morte, qualcuno ritrovi un brandello di onestà. Sperando, appunto. E invece assistiamo all’ennesima recita, all’ennesima presa in giro.
Perché la pace, quella vera, non interessa a nessuno di loro. La guerra è il vero motore del loro potere. È il carburante dei loro consensi, delle loro campagne, dei loro bilanci. È la linfa di un mondo che ha smarrito il senso stesso della parola “sacro”, dove anche il funerale di un Papa diventa un’occasione da sfruttare, un palcoscenico da calpestare senza vergogna. Fa male ammetterlo, ma questa è la realtà.
La morte — che dovrebbe accomunare tutti gli uomini, riducendo a polvere ogni titolo, ogni carica, ogni arroganza — viene trasformata anch’essa in uno strumento, in un mezzo per altro.
Non resta nulla della sacralità, solo l’ombra cinica di un potere che si autopromuove anche sul ciglio di una bara. E allora sì, in quel momento — in quell’immagine paradossale di due uomini stretti in una danza falsa, sotto gli occhi di Dio e degli uomini — ci siamo sentiti traditi. Traditi da loro, certo.
Ma forse anche da noi stessi, che ancora speriamo, ancora crediamo, ancora vogliamo illuderci che basti un funerale solenne per far germogliare un barlume di verità in mezzo al deserto della politica internazionale.
Non basta. Non basterà mai.
Chi ha occhi per vedere, ha visto. E chi ha memoria, non dimenticherà.
Non dimenticherà questa ennesima, grottesca recita sotto le navate di una chiesa, in un mondo che — mentre predica pace — continua a giocare sporco, sempre, ovunque, anche davanti alla morte.
Se persino davanti a una bara si recita, allora non c’è più nulla da salvare.