Il prossimo 8 e 9 giugno 2025 saremo chiamati a votare su cinque quesiti referendari che toccano alcune delle questioni più urgenti e delicate del nostro tempo: il lavoro, la giustizia sociale, la sicurezza nei luoghi di impiego e il tema, sempre attuale, dell’inclusione. Potrebbero sembrare parole astratte, persino stanche ma dietro ognuno di questi termini si nascondono storie vere, persone concrete, fragilità quotidiane.
Eppure, mentre la campagna referendaria si muove a fatica tra le pieghe dell’informazione, cresce il rischio che questo appuntamento con la democrazia venga percepito come marginale. Un errore che non possiamo permetterci. Perché il referendum non è solo uno strumento giuridico: è una possibilità. La possibilità, rara e preziosa, di esprimere direttamente la nostra opinione su temi che incidono sulla vita reale di chi lavora, di chi cerca giustizia, di chi vive ai margini o tenta di integrarsi in un Paese che troppo spesso guarda con diffidenza invece che con apertura.
I cinque referendum riguardano aspetti chiave della normativa sul lavoro e della cittadinanza.
Il primo mira a ripristinare il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, cancellando le limitazioni introdotte dal Jobs Act. È una questione che va oltre la tecnica giuridica: riguarda l’equilibrio tra potere datoriali e diritti dei lavoratori, tra flessibilità e tutela della dignità professionale.
Il secondo quesito propone di eliminare il tetto massimo agli indennizzi in caso di licenziamento senza giusta causa nelle piccole imprese. Una piccola modifica sulla carta ma un cambiamento potenzialmente significativo per chi si trova ad affrontare un licenziamento ingiusto con poche tutele.
Il terzo quesito si concentra sui contratti a termine: l’obiettivo è reintrodurre l’obbligo di indicare una causale anche per i contratti brevi. In altre parole, rendere più difficile l’abuso della precarietà, ridare serietà e trasparenza al lavoro. Perché dietro ogni contratto a termine c’è una persona che prova a costruirsi un futuro, spesso con incertezza e frustrazione.
Il quarto riguarda gli appalti e la sicurezza: l’estensione della responsabilità solidale anche al committente in caso di infortuni è una scelta che può rafforzare la rete di protezione per i lavoratori, in un Paese dove ancora troppo spesso si muore sul lavoro. È un tema morale, prima ancora che giuridico.
Infine, il quinto quesito parla di cittadinanza. Propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza legale per gli stranieri extracomunitari adulti che vogliono diventare cittadini italiani. Non è solo una questione di burocrazia, ma di visione: che tipo di Paese vogliamo essere? Uno che riconosce l’appartenenza come partecipazione, o uno che la confina nei tempi lunghi della diffidenza?
Davanti a questi temi, votare non è solo un diritto: è un dovere morale. Un atto di presenza. Ogni volta che rinunciamo al voto, lasciamo che siano altri a decidere per noi. Peggio ancora: lasciamo che un’occasione di cambiamento venga soffocata dall’indifferenza.
E sì, possiamo essere stanchi, delusi, disillusi. Ma la democrazia non è perfetta e non funziona da sola. Funziona se la nutriamo, se la esercitiamo, se ci prendiamo il tempo di ascoltare, informarci, capire. Partecipare al referendum significa prendersi cura della democrazia nei suoi aspetti più concreti e, spesso, meno spettacolari.
Il referendum non risolve tutto. Non cancella la precarietà da un giorno all’altro, non riforma magicamente il sistema del lavoro né le dinamiche della cittadinanza. Ma ci permette di dire da che parte vogliamo stare. Se vogliamo un Paese che tutela, che include, che riconosce diritti uguali a tutti, oppure uno che continua a dividere, a proteggere pochi e a escludere molti.
Non votare significa lasciare che le cose restino com’erano. O peggio, lasciare che peggiorino nel silenzio. Votare è, invece, un piccolo atto di coraggio civile. Un gesto semplice, ma potentissimo. È il modo più diretto per partecipare, per esserci. Anche se sembra che non serva a niente, anche se i sondaggi dicono che il quorum è lontano, anche se nessuno ci convince davvero: proprio per questo è importante farlo.
L’8 e il 9 giugno 2025, non saremo chiamati solo a barrare una casella su una scheda. Saremo chiamati a scegliere che tipo di società vogliamo costruire. È una responsabilità che ci appartiene. Sta a noi decidere se esercitarla o lasciarla scivolare via.
Perché in fondo, il vero senso di un referendum non è solo nei risultati ma nella partecipazione stessa. È lì che si misura la vitalità di una democrazia. Ed è lì che, ancora una volta, possiamo scegliere di esserci.