È il 1988. Giovanni Falcone è uno dei magistrati più esposti e determinati nella lotta contro Cosa Nostra. Ma non è ancora l’eroe che oggi campeggia su murales e citazioni istituzionali. All’epoca, viene attaccato. Sospettato. Isolato. E perfino accusato — come si legge in un articolo — di fare carriera solo per i suoi “meriti antimafia”.
In vita, Falcone era visto da una parte del Paese come un giudice “troppo esposto”, “troppo celebrato”, “troppo mediatizzato”. Un giudice scomodo. Dopo la sua morte, invece, è diventato patrimonio collettivo. Il classico paradosso italiano.
Nel gennaio 1988, il Consiglio Superiore della Magistratura deve nominare il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Tra i candidati, c’è proprio Giovanni Falcone. L’Italia è nel pieno della guerra contro Cosa Nostra e Palermo è l’epicentro.
Ma ecco che l’articolo di Tajani, pubblicato il 7 gennaio su Il Giornale, solleva dubbi clamorosi: Falcone è davvero il più adatto, o la sua carriera è “gonfiata” dall’immagine costruita attorno alla sua attività antimafia? Il sottinteso è velenoso: non basta essere impegnati contro la mafia per meritare un avanzamento di carriera.
Un ragionamento che oggi suona assurdo, ma che all’epoca era condiviso da molti, persino da figure di spicco come Leonardo Sciascia, che parlava di “professionisti dell’antimafia” in toni critici. Un clima tossico che contribuì a isolare Falcone fino alla tragica strage di Capaci nel 1992.
Dopo la sua morte, Giovanni Falcone è diventato un simbolo nazionale.
Gli stessi ambienti che lo avevano osteggiato in vita — politici, istituzioni, media — hanno cominciato a celebrarlo come un martire della legalità. E oggi il suo volto campeggia sui muri delle scuole, viene citato nei discorsi ufficiali e celebrato ogni 23 maggio.
Ma la verità è che in vita non fu mai difeso a sufficienza. Anzi, fu ostacolato, screditato, persino deriso. È un vizio profondamente italiano: onorare i giusti solo dopo la loro morte, quando non danno più fastidio. Quando non parlano, non accusano, non disturbano l’ordine costituito.
Quel vecchio articolo del 1988, apparentemente superato, oggi ci interroga più che mai: chi sono i “Falcone” di oggi?
Chi stiamo isolando invece di sostenere?
E soprattutto, quanti altri dovranno essere celebrati da morti per essere finalmente presi sul serio da vivi?
Giovanni Falcone non ha fatto carriera per i “meriti antimafia”. Ha fatto la Storia.
Eppure, in vita, fu trattato come un problema più che come una risorsa. Il suo esempio resta vivo, ma ci impone un’amara riflessione: abbiamo imparato davvero qualcosa oppure siamo ancora fermi a quel vezzo tutto italiano, di onorare gli eroi quando è troppo tardi?
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