Da una settimana, il cuore di Torino batte più forte. A scandire il tempo in Piazza Castello, tra tende, cartelli e assemblee pubbliche, sono gli studenti e le studentesse delle università torinesi che hanno deciso di resistere. Non per un esame, non per un voto, ma per dare voce a chi voce non ha più: il popolo palestinese, stretto nella morsa di un conflitto che ha assunto i contorni di un vero e proprio genocidio.
La loro è una presenza pacifica ma ferma, determinata, radicale nella semplicità: dormono in piazza, discutono, informano, condividono immagini e testimonianze da Gaza, dove ogni giorno si contano vittime tra i civili, tra i bambini, tra chi non ha più nemmeno un rifugio dove nascondersi.
“Vogliamo rompere il silenzio complice – spiegano – vogliamo che le nostre università, le nostre istituzioni e la nostra città prendano posizione”.
Ma domenica 25 maggio, nel pieno della loro attività di presidio, è arrivato l’ennesimo segnale di repressione: la polizia municipale ha minacciato lo sgombero dell’accampamento per la giornata di lunedì. “Non possiamo restare indifferenti – dice uno degli studenti al megafono – e non possiamo più accettare che la solidarietà sia trattata come un disturbo all’ordine pubblico. L’ordine che vogliamo è quello della giustizia”.
Tra le tende si respira tensione, ma anche una straordinaria determinazione collettiva.
“Non ci muoviamo – ripetono –, se ci sgomberano torneremo. Perché qui non si tratta di un capriccio: si tratta di una presa di coscienza”.
Il presidio, in realtà, è solo l’ultima tappa di un movimento più ampio che da mesi attraversa le università italiane e internazionali. Dalle mobilitazioni nei campus statunitensi ai presìdi a Roma, Bologna, Milano, Napoli, gli studenti chiedono la fine del genocidio, il cessate il fuoco immediato e la fine della complicità dell’Occidente.
Il messaggio è chiaro, scritto ovunque sui cartelli e urlato nei cori: “Fermate il genocidio”, “Boicottare l’apartheid”, “Gaza resiste, noi con lei”. Non è solo protesta, è memoria attiva, è educazione alla disobbedienza civile, è riscatto etico di un’intera generazione che rifiuta l’indifferenza come normalità.
Ora, con lo sgombero minacciato, la questione si fa politica. Come risponderanno le istituzioni torinesi? Con la repressione o con l’ascolto? Per ora, una cosa è certa: in Piazza Castello la solidarietà ha messo radici, e non sarà facile sradicarla.
Le foto sono state scattate da Leopoldo Di Filippo