Una ragazzina di quattordici anni è stata uccisa. Ad Afragola. Accoltellata da un ragazzo di diciannove. Diciannove anni. Non un adulto. Non un padre di famiglia. Un ragazzo. Un giovane uomo che dovrebbe avere la vita davanti e invece ha scelto di strapparla ad una bambina.
Sì, bambina. Perché a quattordici anni lo si è. Anche se sui social si posa da adulte, anche se ci si trucca, anche se si frequenta chi ha più anni, più parole, più rabbia addosso. Bambina lei. Ragazzo lui. E noi? Noi gli adulti. Noi che continuiamo a dire che è “una tragedia”. No. È un femminicidio. L’ennesimo. E definirlo “tragedia” è già un primo modo per togliere responsabilità.
Tragedia è qualcosa che non si poteva evitare. Questa morte sì, si poteva evitare. Ma non l’abbiamo fatto. Perché siamo stanchi, perché ci sentiamo impotenti, perché preferiamo non guardare. O peggio, ci limitiamo a commentare, postare, condividere. “È aberrante”, “Serve giustizia”, “Solidarietà”. Tutto giusto, tutto inutile.
Ho visto in questi giorni decine di uomini condividere frasi toccanti, indignate, sincere. Ho visto anche donne e ragazze farlo. E poi, nella storia successiva, pubblicare selfie ammiccanti, frasi su quanto sono “un problema per chi si affeziona”, foto filtrate in lingerie. Nessuno scandalo, per carità. Libertà. Ma non chiamatelo femminismo. Non chiamatelo “essere solidali”. Perché la coerenza ha un peso. E il rispetto parte da lì.
Stiamo crescendo una generazione che confonde l’identità con un algoritmo. Che cerca validazione nei numeri, negli sguardi virtuali, nei “cuori” ricevuti da sconosciuti. I social non sono il male assoluto, ma sono un acceleratore. E a undici, dodici, tredici anni, accelerare certe dinamiche significa schiantarsi.
Lo vediamo ogni giorno. Bambini con l’iPhone da 800 euro e lo sguardo perso. Ragazze che parlano di relazioni tossiche senza sapere nemmeno cosa significhi “cura”. Ragazzi che minacciano, controllano, pretendono. Che se vengono lasciati, si sentono falliti. Che se una ragazza dice “basta”, la vivono come un affronto da lavare nel sangue. Dove l’hanno imparato tutto questo? Dove eravamo noi mentre lo imparavano?
Forse troppo impegnati a non sembrare “all’antica”. A non dire no. A pensare che i limiti siano sbagliati, che proibire sia crudele, che educare significhi “lasciarli esprimere”. E ora? Ora accendiamo fiaccole. Ora ci indigniamo. Ora, tardi.
I genitori non sono colpevoli di tutto ma sono la prima linea. La scuola è in affanno, spesso lasciata sola. I servizi sociali sono pochi, spesso troppo tardi. Ma ci sono cose che spettano a noi, come società. Come adulti. Come voci autorevoli che invece tacciono, per paura di sembrare moraliste.
Se un social network crea danni psicologici, dipendenza, frustrazione e violenza in adulti di 30, 40, 60 anni… come può non nuocere a un ragazzino? Perché nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente? Perché ci si scandalizza più per chi propone di limitare l’accesso ai social che per l’ennesima notizia di un omicidio tra giovanissimi?
Non è moralismo. È realismo. Abbiamo bisogno di riprenderci i nostri figli. Di guardarli negli occhi e dire: “No. Questo non va bene”. Abbiamo bisogno di educare alle emozioni, al rifiuto, all’empatia. Abbiamo bisogno di togliere loro il peso di dover essere grandi troppo presto. Non serve un’altra commemorazione. Non serve una fiaccolata con la musica in sottofondo. Non serve il minuto di silenzio a scuola, se dopo si torna al vuoto.
Serve una rivoluzione culturale. Serve spegnere un attimo lo schermo e ascoltare. Serve dire cose scomode. Come che i bambini non dovrebbero avere un profilo Instagram. Che il primo amore non dovrebbe coincidere con la prima paura. Che i genitori devono esserci, anche quando non è comodo. Anche quando fa male.
Martina non c’è più. Aveva quattordici anni. E non è stata portata via da un destino crudele. È stata uccisa da quello che stiamo diventando.
Non chiamatela tragedia. È una resa. E se non cambiamo davvero, sarà solo la prossima di una lunga, atroce, infinita lista.