Ci sono momenti nella storia in cui non è più possibile restare neutrali. In cui ogni silenzio diventa una complicità, ogni indifferenza una vergogna. Gaza, oggi, è uno di quei momenti. Anzi: è il momento.
50.000 vittime. 20.000 bambini. Numeri che da soli raccontano la tragedia, ma non bastano. Perché dietro ogni cifra c’è un nome, un volto, un sogno spezzato, un grembo strappato, una risata muta. Gaza non è solo una città bombardata. È il simbolo di un’umanità calpestata, della vita ridotta in polvere sotto il peso delle bombe e dell’ipocrisia internazionale.
Dal 7 ottobre 2023, l’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza ha assunto proporzioni catastrofiche e ingiustificabili. La vendetta di Stato ha travalicato ogni limite del diritto internazionale. Le ONG parlano di una “distruzione intenzionale e sistematica della popolazione civile”, che non può più essere rubricata come “effetti collaterali” di una guerra. Qui siamo di fronte a un crimine contro l’umanità, a una pulizia etnica scientifica, a un genocidio.
La definizione è forte. Ma è la realtà a esserlo di più. Ospedali attaccati, ambulanze crivellate, scuole colpite, giornalisti assassinati, intere famiglie cancellate. E intanto l’Occidente volta le spalle, fornendo armi e appalti, mentre si celebra la pace a parole e si finanzia la guerra coi fatti.
L’ipocrisia delle democrazie
È inquietante constatare come le stesse istituzioni che si indignano per ogni atto repressivo lontano da casa, si trasformano in cieche e sorde quando a morire sono i palestinesi. Quasi che esistessero vite di serie A e vite sacrificabili.
Il doppio standard è lampante: il popolo palestinese non ha diritto nemmeno al lutto. Il suo dolore non buca i notiziari, non mobilita le diplomazie, non commuove le cancellerie. Gaza è diventata una zona grigia della coscienza occidentale, un buco nero della morale internazionale.
Ma non tutti si piegano. In questi mesi, poeti, attori, studenti, insegnanti, intellettuali hanno scelto di alzare la voce. In Italia, sul palco del teatro greco di Siracusa, gli attori di “Edipo a Colono” hanno sfidato la censura dell’INDA e hanno letto i versi di Rafaat Al Areer, poeta palestinese ucciso insieme alla sua famiglia:
“Se dovessi morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia.”
Ed è proprio questo il punto: raccontare. Perché quello che sta accadendo non può e non deve essere dimenticato. Perché ogni artista, giornalista, cittadino ha il dovere morale di fare memoria in tempo reale.
Il dovere di dire “genocidio”
Amnesty International, Human Rights Watch, le Nazioni Unite: tutti gli organismi indipendenti hanno denunciato la violazione sistematica dei diritti umani a Gaza. Ma ciò non basta. Finché non useremo le parole giuste, continueremo a mascherare l’orrore con la burocrazia diplomatica.
E la parola giusta è questa: GENOCIDIO.
Non è retorica. È la verità.
Stare con la Palestina oggi non è una scelta ideologica. È una scelta umana.
Significa non accettare che dei bambini vengano uccisi sotto gli occhi del mondo, giorno dopo giorno, senza che nessuno paghi. Significa alzarsi e dire che nessuna sicurezza può fondarsi sul massacro degli innocenti.
Gaza ci guarda. Ci guarda dai suoi crateri, dai suoi ospedali sventrati, dalle tende in fiamme. Ci guarda e ci chiede se siamo ancora esseri umani.