La notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 potrebbe essere ricordata come uno di quei momenti in cui la storia accelera, travolgendo certezze e diplomazie. Israele ha lanciato un attacco su larga scala contro l’Iran, colpendo decine di obiettivi strategici, tra cui infrastrutture militari, centri di comando e impianti nucleari. Un’operazione militare senza precedenti negli ultimi anni, che non si limita a una rappresaglia né si presenta come un’azione simbolica: è un messaggio chiaro e diretto.
Dietro questo attacco, dichiarato come “preventivo”, si cela una tensione che da tempo covava sotto la superficie. Israele considera il programma nucleare iraniano una minaccia esistenziale e ha scelto di agire, rompendo l’equilibrio precario che finora aveva tenuto insieme la regione. Da parte sua, l’Iran ha risposto come previsto: droni, missili, dichiarazioni infuocate. Ma è il contesto più ampio a inquietare davvero.
Per anni, la comunità internazionale ha tentato – spesso in modo goffo o interessato – di tenere un piede in ogni campo: da un lato il timore che Teheran possa sviluppare un’arma nucleare, dall’altro il tentativo di evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente. Tuttavia, le trattative sul nucleare iraniano si erano arenate già da tempo. L’uscita degli Stati Uniti dal JCPOA, l’accordo del 2015, aveva minato la fiducia reciproca, mentre il dialogo era rimasto prigioniero di veti incrociati e diffidenze.
Israele ha quindi scelto la strada più drastica, sostenendo che ogni giorno di attesa avrebbe aumentato il rischio. Una scelta che ha lasciato spiazzati molti governi occidentali: ufficialmente distanti dall’azione ma consapevoli del proprio coinvolgimento, se non militare, almeno politico e strategico.
L’effetto immediato è stato uno scenario regionale ancora più fragile. I cieli mediorientali, già affollati da anni, sono ora attraversati da droni e intercettazioni. Ogni singolo errore, ogni bersaglio colpito per sbaglio, può trasformarsi in una miccia.
C’è poi la questione energetica: l’instabilità nel Golfo Persico – e soprattutto la minaccia alla navigazione nello Stretto di Hormuz – mette in allarme i mercati globali. Il prezzo del petrolio sale, le borse vacillano, l’oro torna ad essere il rifugio degli investitori. In un mondo ancora alle prese con l’equilibrio post-pandemia e gli strascichi della guerra in Ucraina, questo nuovo fronte appare come l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno.
E soprattutto, c’è la popolazione civile. In Iran, in Israele, in Libano, in Siria, a Gaza. Sono le persone comuni a pagare il prezzo più alto di scelte geopolitiche che troppo spesso sembrano ignorarle del tutto. Tra loro, molti giovani che hanno visto solo guerra e paura. E che, anche questa volta, non hanno avuto voce.
Nessuno dei grandi attori globali può dirsi davvero neutrale. Gli Stati Uniti cercano di bilanciare il sostegno a Israele con la necessità di non farsi trascinare in un conflitto diretto. L’Europa, ancora una volta, appare più spettatrice che protagonista, limitandosi ad appelli alla moderazione. Russia e Cina osservano da lontano, pronte a sfruttare ogni spazio lasciato libero dalle esitazioni occidentali. Nel frattempo, i paesi del Golfo cercano di difendere i propri interessi tra la necessità di sicurezza e il timore di una guerra alle porte.
E poi c’è la diplomazia delle dichiarazioni, delle conferenze stampa e delle risoluzioni ONU che si accavallano senza effetti concreti. La sensazione è che la comunità internazionale stia rincorrendo gli eventi, piuttosto che prevenirli.
L’attacco israeliano all’Iran ha aperto una fase nuova, pericolosa, in cui ogni mossa può cambiare gli equilibri globali. Di fronte a questo scenario, le parole non bastano più. Servono decisioni coraggiose, responsabili, umane. Perché in questo gioco di potere, ogni vittoria apparente rischia di diventare una sconfitta per tutti.