In un mondo che somiglia sempre più a una caricatura malriuscita della storia, tra guerre che sembrano uscire da un manuale di orrori del Novecento e leader che oscillano tra la farsa e la minaccia, ci sono ancora loro: i ragazzi della maturità. Quei diciottenni che, tra una versione di greco e una simulazione di seconda prova, stanno per affrontare il primo vero rito di passaggio della vita adulta. E lo fanno con addosso un carico di domande, aspettative e paure che non appartengono solo alla scuola, ma anche a un tempo storico che sembra remare ostinatamente contro ogni prospettiva di futuro.
È difficile, a diciott’anni, guardare avanti con fiducia. Non solo perché il pianeta brucia, la diplomazia internazionale vacilla e l’ecosistema sociale ed economico in cui si affacciano è instabile, ma perché il presente stesso, nella sua grottesca assurdità, spesso non lascia spazio alla visione. I modelli pubblici sembrano premiarli più se sanno fare un video virale che se sanno argomentare una tesi. Il successo si misura in follower, non in idee. Ma la vita vera non è un social network. Non è fatta di like, filtri o storytelling da algoritmi. La vita vera è fatta di progetti, di speranze, di emozioni che spiazzano, di sogni che sfidano le logiche. E ogni ragazzo che oggi affronta l’esame di maturità ha il diritto di cercare proprio questo: un’esistenza piena, vera, profonda.
A questi ragazzi, che si apprestano a varcare la soglia dell’Esame di Stato, va oggi il nostro sguardo più onesto. Non pietoso, né paternalistico. Non li dobbiamo né coccolare né santificare, ma semplicemente guardare per ciò che sono: una generazione che ha avuto la pandemia come compagna di banco, la guerra come notifica quotidiana, la crisi climatica come sottofondo costante. E nonostante tutto, ancora lì, tra schemi di filosofia, prove Invalsi e sogni mai del tutto confessati.
Quello che chiediamo loro, e che loro stessi dovrebbero chiedersi, non è solo di passare un esame. Ma di non arrendersi al cinismo che li circonda. Di non credere alla bugia più tossica del nostro tempo: che nulla abbia più senso. Che tanto, “sono tutti uguali”, “è tutto già scritto”, “non vale la pena provarci”. No. Vale la pena. Vale sempre la pena.
Perché chi ha diciott’anni oggi ha diritto – e forse anche dovere – di pretendere di più. Di non accontentarsi dell’ovvio, del “tanto va così”, del lavoro precario travestito da opportunità, dell’amore tiepido travestito da abitudine. Devono imparare a dire “no” a ciò che sminuisce il loro valore. In amore, nel lavoro, nelle relazioni, nella quotidianità. Hanno il diritto – e il dovere verso sé stessi – di non accontentarsi mai di meno di ciò che realmente sanno di meritare. Di non chiedere il permesso per essere felici. Di non abbassare il tono dei loro sogni per adattarsi a un mondo che, troppo spesso, si è rassegnato.
Devono pretendere, con la testardaggine dei sogni, con la grazia dell’incoscienza e con la fame di giustizia, quello che a volte nemmeno sanno esprimere con le parole, ma che sentono bruciare dentro: un posto nel mondo che non sia di riserva. Devono pretendere bellezza, possibilità, dignità. Perché lo meritano. Perché è loro.
E noi, adulti spesso distratti, disillusi o cinicamente rassegnati, abbiamo il dovere di ascoltarli. Di lasciarci spiazzare dai loro entusiasmi, dalle loro ingenuità (che sono poi solo forme premature di saggezza), dalla loro voglia di cambiare le cose. Non servono lavagne nuove, tecnologia all’avanguardia e progetti vari. Serve un’alleanza generazionale che non li consideri solo “futuro” – come se fossero eternamente in attesa – ma anche presente. Vivo, urgente, necessario.
L’esame di maturità, con tutta la sua liturgia, è molto più di un passaggio scolastico. È il simbolo, nel bene e nel male, di un primo confronto con la realtà. È la fine di un tempo protetto e l’inizio di una strada in cui ogni passo sarà scelto, faticato, guadagnato. Ma è anche – e soprattutto – il momento in cui possono guardarsi allo specchio e dire: “Ce la posso fare. Anche in questo mondo così storto, io ci sto. E voglio dire la mia”.
A loro, quindi, non possiamo che augurare di affrontare queste prove con la serietà di chi sa che sta giocando qualcosa di importante ma anche con la leggerezza di chi capisce che nessuna commissione potrà mai valutare davvero il valore di una persona, la profondità di un sogno, la tenacia di un desiderio.
Che possano sorridere anche quando le tracce sembreranno fuori dal mondo. Che possano ridere degli strafalcioni e commuoversi per i traguardi. Che possano fare festa, perché la festa è parte della resistenza. Che possano, soprattutto, guardare avanti con una gioia ostinata, una gioia che non nega la realtà, ma che la attraversa con fiducia.
Perché in un tempo grottesco, in un mondo ferito, non c’è gesto più radicale, più rivoluzionario, più umano… che continuare a sperare.