L’affermazione di Donald Trump secondo cui “potrei farlo, come non potrei farlo” in merito a un possibile attacco all’Iran non è soltanto una frase ambigua: è l’eco sinistro di un modo di intendere il potere che flirta con l’imprevedibilità, la minaccia e la spregiudicatezza geopolitica. È un messaggio mascherato da possibilità, ma impregnato di arroganza. Non è una dichiarazione diplomatica, ma un colpo di clacson lanciato nel traffico incandescente della politica internazionale, dove basta un errore, una parola sbagliata o un ordine improvviso per innescare la miccia di una crisi globale.
Trump ha sempre avuto una cifra retorica da showman, un modo di comunicare che richiama più la logica del reality show che quella del dibattito istituzionale. Eppure, ciò che differenzia una battuta da un presidente e una battuta da un personaggio televisivo è che nel primo caso può costare vite umane. L’idea che un eventuale attacco all’Iran sia sul tavolo come possibilità generica, espressa senza contesto né chiarezza, alimenta una narrativa del caos calcolato che può solo destabilizzare ulteriormente uno scenario internazionale già teso.
Parliamo di un uomo che ha già mostrato di preferire l’unilateralismo alla diplomazia, il muscolo alla mediazione. La sua affermazione non è un semplice esercizio retorico: è un campanello d’allarme su una visione del potere come strumento personale, incontrollabile, dominato dal narcisismo politico e dal desiderio di apparire forte a ogni costo, anche a rischio di conflitto.
L’Iran non è un bersaglio qualsiasi. È un attore regionale potente, con un sistema militare avanzato, alleanze strategiche con la Russia e con gruppi paramilitari attivi in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Un attacco americano, specialmente se preventivo e non legittimato dal diritto internazionale, non sarebbe una scaramuccia, ma un’escalation violenta che metterebbe in pericolo l’intero Medio Oriente e probabilmente oltre.
Le conseguenze immediate sarebbero:
- Ritorsioni iraniane contro basi americane in Iraq e Siria
- Attacchi ai partner regionali degli Stati Uniti, come Israele e Arabia Saudita
- Una nuova crisi energetica globale, con lo stretto di Hormuz – da cui passa circa il 20% del petrolio mondiale – trasformato in un campo di battaglia
- Un’impennata del terrorismo internazionale, con gruppi jihadisti che potrebbero cavalcare il caos per riacquisire forza
- Possibile coinvolgimento indiretto della NATO, con pressioni sugli alleati europei
L’Europa, che dipende ancora largamente dal petrolio mediorientale e che ha visto i suoi equilibri economici minati dalla guerra in Ucraina, non reggerebbe a lungo un nuovo shock energetico. Le tensioni sociali, l’inflazione e la polarizzazione politica ne uscirebbero rafforzate. E nel frattempo, i rifugiati scapperebbero a milioni, rianimando le crisi migratorie e soffiando sul fuoco dei nazionalismi.
Ma la portata sarebbe ancora più ampia. Una guerra USA-Iran potrebbe essere la miccia che riattiva le linee di frattura globali: Russia e Cina, principali avversari strategici di Washington, potrebbero trarne vantaggio, rafforzando i loro legami con Teheran e ponendosi come contrappeso alla politica interventista americana. Si rischierebbe un nuovo bipolarismo armato, molto più instabile di quello della Guerra Fredda, perché frammentato, multipolare e privo di regole condivise.
Inoltre, in un momento storico in cui le democrazie occidentali mostrano segni evidenti di fragilità, l’idea che un singolo leader possa, con una frase detta quasi per sfida, orientare il destino di milioni di persone è sintomo di un malessere più profondo. Il culto dell’uomo forte, la riduzione della politica a spettacolo, la manipolazione del consenso attraverso la paura sono dinamiche che ricordano i momenti più bui della storia del Novecento.
L’idea che Trump possa “farlo o non farlo” mette in luce un altro problema: l’assuefazione al linguaggio del potere. In un mondo in cui le dichiarazioni politiche vengono rilanciate in tempo reale, digerite dai social e trasformate in meme, la gravità delle parole tende a sbiadirsi. Ma una democrazia sana non può permettersi di ignorare quando un leader si pone al di sopra della legge, della diplomazia e della pace.
Non possiamo accettare che una potenziale guerra venga trattata con la stessa leggerezza con cui si cambia opinione su un social. Il potere non è un gioco. Le bombe non sono tweet. E i cadaveri non sono spettatori.
L’affermazione di Trump va letta come un monito. Un promemoria di quanto siano fragili le strutture del diritto internazionale, e di quanto sia pericoloso concedere il potere assoluto a chi non ha una visione collettiva del futuro. Un attacco all’Iran – anche solo evocato – è l’ennesima prova di come l’ego di un singolo uomo possa mettere in pericolo l’equilibrio globale.
In tempi così incerti, abbiamo bisogno di leader che costruiscano ponti, non che lancino razzi. Di parole che uniscano, non che scatenino. E di cittadini che non si voltino dall’altra parte quando la pace viene minacciata in nome del potere personale.
Trump potrebbe farlo, sì. Ma noi, collettivamente, abbiamo il dovere morale di impedirlo.