La vittima ha un nome. I suoi estorsori, no. È il paradosso che si ripete, e che oggi grida più forte che mai dalla provincia pontina. Nove persone ritenute gravemente indiziate di estorsione aggravata dal metodo mafioso, appartenenti a due gruppi criminali collegati tra loro – uno riconducibile alla mafia siciliana, l’altro radicato nella criminalità organizzata romana – sono finite al centro di un’indagine condotta dalla Direzione Investigativa Antimafia (centro operativo di Roma).
Tuttavia, a finire sotto i riflettori non sono loro. È la vittima, l’imprenditore che ha avuto il coraggio di denunciare, il cui nome è stato reso pubblico nel comunicato ufficiale della DIA. Un’esposizione pericolosa, soprattutto in un territorio come quello pontino, dove le mafie hanno messo radici profonde e la rete del silenzio e dell’intimidazione è fitta e asfissiante.
Questo caso è solo l’ultimo esempio di una distorsione ormai strutturale: le riforme Cartabia e Costa, nate per garantire una giustizia più riservata e garantista, stanno diventando uno scudo per i criminali e una ghigliottina per il diritto di cronaca. Da un lato, l’anonimato per gli indagati, anche quando i reati sono gravissimi e mafiosi. Dall’altro, nessuna tutela per chi denuncia, nessuna cautela nel proteggere chi si espone contro il potere criminale.
Come ha denunciato Stampa Romana, il sindacato dei giornalisti del Lazio, è ormai evidente che la comunicazione giudiziaria è nelle mani degli uffici stampa delle procure. L’informazione filtrata e selezionata, privata dell’intermediazione critica e autonoma del giornalismo d’inchiesta, rischia di diventare strumento istituzionale e non più servizio pubblico.
Non si tratta solo di un problema tecnico o giuridico. È una questione democratica. In un Paese attraversato da infiltrazioni mafiose, dove l’informazione libera è un baluardo contro il potere criminale, leggi come queste finiscono per colpire chi racconta, non chi commette. Espongono le vittime e proteggono i carnefici. Zittiscono la stampa e offrono copertura ai sistemi criminali.
Inoltre, nei territori ad alta densità mafiosa, come il basso Lazio, la Campania, la Calabria o la Sicilia, queste distorsioni non sono semplici omissioni: diventano pericolose complicità sistemiche. L’oscuramento dei nomi degli indagati mafiosi priva l’opinione pubblica della consapevolezza, impedisce il controllo sociale e disarma i cittadini che cercano giustizia.
Stampa Romana ha ragione: è urgente rivedere la legge Cartabia e la legge Costa. Serve un equilibrio reale tra tutela della riservatezza e diritto costituzionale all’informazione. Serve il coraggio politico di difendere il giornalismo, non limitarlo con norme pensate per altri scopi e poi mutate in scudi per chi delinque.
Il giornalismo non è un fastidio per la giustizia. È un pilastro della giustizia democratica. E dove lo si comprime, dove lo si costringe alla subalternità, si crea terreno fertile per mafie, connivenze, omertà.
L’Italia non può permettersi leggi che oscurano i colpevoli e illuminano le vittime. È tempo di dirlo chiaramente: basta con l’inversione delle tutele. Basta leggi che proteggono chi minaccia e lasciano soli coloro che denunciano.