Un decreto contestato prima ancora di essere applicato. Così si potrebbe riassumere il destino del Decreto Sicurezza 2025 (D.L. 48/2025), entrato in vigore il 12 aprile e convertito in Legge 80/2025 il 9 giugno senza alcuna modifica. Una norma che tocca ambiti delicatissimi – dal contrasto al terrorismo alla gestione dell’ordine pubblico, dalla tutela degli agenti alla stretta sulle detenute madri, fino alla penalizzazione della filiera della canapa industriale – ma che ha provocato un’ondata di critiche per modalità, contenuti e impatto sui diritti fondamentali.
La relazione ufficiale della Corte di Cassazione (Rel. n. 33/2025) mette in luce l’ampiezza del dispositivo normativo: 39 articoli suddivisi in 6 capi. Le novità riguardano il codice penale, la legislazione complementare, il processo penale, le misure di prevenzione e l’ordinamento penitenziario.
Tra le principali modifiche:
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Nuovi reati: come l’art. 270-quinquies.3 c.p. (apologia del terrorismo), l’art. 415-bis (rivolta in carcere), l’art. 634-bis (blocco stradale e ferroviario).
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Aumento delle pene e nuove aggravanti: per resistenza a pubblico ufficiale, truffa, accattonaggio, danneggiamento e violenza in stadi e luoghi pubblici.
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Introduzione di fattispecie penalmente rilevanti per la canapa: un netto passo indietro rispetto alla legge 242/2016, con l’effetto di criminalizzare la filiera industriale.
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Nuove restrizioni per le detenute madri, con limitazioni al rinvio dell’esecuzione della pena.
La Corte sottolinea la singolare procedura legislativa: il decreto ricalca quasi integralmente il disegno di legge governativo (Atto Camera 1660), già in discussione da mesi in Parlamento e in attesa della terza lettura al Senato. Il Governo ha scelto, improvvisamente, di scavalcare l’iter ordinario e legiferare per decreto, nonostante non vi fossero – come osservano i costituzionalisti – i presupposti di “necessità e urgenza” richiesti dall’art. 77 della Costituzione.
Secondo l’Appello per una sicurezza democratica firmato da oltre 250 costituzionalisti italiani, il decreto rappresenta una “prepotenza governativa” e una “regressione democratica”, che svilisce il ruolo del Parlamento e svuota il principio della riserva di legge in materia penale.
L’ONU e l’OSCE hanno sollevato preoccupazioni gravi. Gli special rapporteurs del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno denunciato il rischio di discriminazioni verso migranti, minoranze etniche e rifugiati, oltre alla minaccia alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica. Le norme contenute nel decreto, secondo le organizzazioni internazionali, possono portare a repressione arbitraria e processi iniqui.
Il Consiglio Superiore della Magistratura ha evidenziato che “non è del tutto prevedibile” l’impatto che il decreto avrà sull’organizzazione giudiziaria. Più netta l’Unione Camere Penali Italiane, che ha proclamato un’astensione dalle udienze e denunciato un abuso della decretazione d’urgenza, soprattutto in un ambito così sensibile come quello penale.
Anche l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) ha parlato di “uso simbolico del diritto penale per rafforzare la percezione di sicurezza” e di anomalo utilizzo del decreto legge come scorciatoia politica.
Il Decreto Sicurezza 2025 si presenta come una stretta repressiva senza precedenti recenti, con un’estensione delle fattispecie penali e un inasprimento delle pene in netta controtendenza rispetto alla giurisprudenza costituzionale e ai principi europei.
Dietro l’alibi della sicurezza pubblica si intravede un uso politico del diritto penale, volto a rispondere a pulsioni securitarie più che a emergenze effettive. Le implicazioni per il sistema democratico e per lo Stato di diritto sono tutt’altro che secondarie: quando la legge si fa decreto, e il decreto diventa arma ideologica, a rischiare non è solo la giustizia, ma la stessa tenuta democratica delle istituzioni.