Quello che sta succedendo nelle carceri italiane non è più tollerabile. Lo ha detto chiaramente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e lo ha fatto con parole che non lasciano spazio a interpretazioni: “Il sovraffollamento è insostenibile. Fermare i suicidi.” Un richiamo forte, umano, necessario. Perché oggi, nel 2025, stiamo assistendo a qualcosa che va oltre l’allarme: è un’emergenza civile, sociale, morale.
Le carceri italiane scoppiano. Non è un modo di dire. A fronte di una capienza regolamentare di circa 47mila posti, ci sono oltre 62mila detenuti. E in alcune strutture, come San Vittore a Milano o Poggioreale a Napoli, si superano di gran lunga i limiti della dignità. Celle da due persone in cui dormono in cinque, mancanza di acqua calda, spazi per le attività inesistenti, pochi educatori, pochissimi psicologi.
E poi c’è il dato più tragico: i suicidi. Solo nel 2024 ne sono stati registrati 91. Nei primi cinque mesi del 2025 siamo già oltre i 30. Detenuti che si tolgono la vita in silenzio, spesso soli in cella, dimenticati da tutti. E dietro ognuno di quei gesti estremi c’è una storia di abbandono, di disagio psichico non curato, di disperazione a cui nessuno ha saputo — o voluto — dare ascolto.
Ma la verità, per quanto scomoda, è che non si muore solo per propria mano, dentro le carceri italiane. Si muore anche lentamente, ogni giorno, sotto il peso dell’umiliazione, dei soprusi, dei maltrattamenti. Perché sì, in molte strutture si continua a picchiare, a minacciare, a punire arbitrariamente. Basta leggere le inchieste, ascoltare le testimonianze dei garanti, vedere le immagini che ogni tanto riescono a bucare il muro dell’omertà e della paura. Uomini denudati, umiliati, colpiti in gruppo. Non ovunque, certo. Ma troppo spesso per continuare a considerarlo un fatto isolato.
E allora la domanda è semplice: cosa stiamo aspettando?
Nel 2003 fu Giorgio Napolitano a denunciare pubblicamente le condizioni disumane nelle carceri, parlando di una “violazione sistematica dei diritti umani”. Oggi, più di vent’anni dopo, siamo ancora lì. Forse peggio. Perché se all’epoca c’era la speranza di cambiare, oggi c’è solo l’indifferenza. Come se il carcere fosse un luogo sospeso, staccato dalla società, dove tutto può accadere impunemente. Un mondo chiuso, dove i diritti valgono meno, e dove la sofferenza si dà per scontata.
Ma non può essere così. Non può esserlo in un Paese che si definisce democratico.
E qui serve anche un chiarimento, per evitare fraintendimenti: nessuno sta dicendo che tutti debbano uscire dal carcere o che ogni detenuto meriti un trattamento indulgente. C’è una differenza sostanziale tra chi ha commesso reati gravi, come un omicidio o un femminicidio — per i quali la giustizia deve essere severa e coerente — e chi si trova in carcere per reati minori: piccoli furti, violazioni amministrative, detenzione di droghe leggere, reati legati alla povertà o alla dipendenza. In molti casi, queste persone potrebbero e dovrebbero scontare pene alternative, come i lavori socialmente utili, la messa alla prova, o i percorsi riabilitativi fuori dal carcere. Sarebbe un atto di civiltà, ma anche un modo concreto per alleggerire il sistema penitenziario e restituirgli il suo senso rieducativo.
Non c’è paragone possibile tra chi ha spezzato una vita con violenza e chi è finito in cella per sopravvivere. Ma oggi entrambi vivono nello stesso degrado, nello stesso abbandono. E questo non è giustizia. È disorganizzazione. È cecità istituzionale.
La politica deve agire — con coraggio, e con urgenza. Servono più magistrati di sorveglianza, più educatori, più formazione per la polizia penitenziaria. Ma serve soprattutto un cambio di sguardo: capire che chi è dietro le sbarre resta un essere umano. E che i diritti valgono anche per chi ha sbagliato.
Perché non si tratta solo di detenuti. Si tratta di noi. Di come scegliamo di trattare chi è fragile, chi è ai margini, chi ha perso tutto — anche la speranza. E se continueremo a far finta di niente, allora dovremo smettere di dirci civili. Perché civiltà non è solo libertà. È anche rispetto per chi quella libertà l’ha persa, ma non per questo deve perdere anche la dignità.
Mattarella ci ha ricordato che il carcere riguarda tutti. Sta a noi decidere se vogliamo continuare a chiudere gli occhi… o finalmente iniziare a guardarci dentro.