«In tutto il globo terracqueo», questa frase pronunciata nei confronti di oscuri “trafficanti” l’anno scorso da parte della presidente del consiglio dei ministri Giorgia Meloni scatenò l’ironia e i social.
Nelle scorse settimane Meloni è tornata sul punto affermando che ci sarebbero anomalie sui flussi migratori, anomalie che ha affermato di aver denunciato alla Procura Nazionale Antimafia. Trascurando il dato che, come lo stesso procuratore nazionale ha sottolineato, le denunce non andrebbero presentate presso la Procura Nazionale che ha compiti di coordinamento delle procure territoriali, tralasciando vari altri fattori che hanno anche un peso enorme, una circostanza merita di essere sottolineata e approfondita. Meloni fa riferimento a oscuri figuri, a qualcosa di sconosciuto come un complotto di una Spectre lontana e irraggiungibile. Ma se si vuol conoscere chi sfrutta e lucra, trafficanti e mafiosi, basterebbe rileggere la storia di questo Paese e dell’Europa, riprendere in mano quel che è pubblico (o si è tentato di rendere pubblico) almeno da trent’anni.
La «holding degli schiavisti» è il titolo di uno dei due articoli di Dino Frisullo pubblicati nel settembre 1997 su Narcomafie.
Dino Frisullo fu il primo, con l’associazione Senzaconfine e pochi militanti antirazzisti, ad impegnarsi in prima persona, con la generosità e la passione che solo lui riusciva a donare, per avere giustizia e verità per le 289 vittime della strage di Natale del 1996. Fatti acclarati, documentati, che non c’è bisogno di rincorrere per tutto il «globo terracqueo» che non hanno mai avuto giustizia in Italia. E il racconto di trent’anni di traffici e schiavismo, di sfruttamento e mafie di ogni tipo non può che partire da quelle settimane, da quel Natale di sangue e di vergogna disumana e razzista di quasi trent’anni fa. In questi tre anni e mezzo varie volte abbiamo pubblicato articoli per ricordare quanto accaduto in quelle settimane e le inchieste e l’impegno di Dino.
Riproponiamo la ricostruzione riprendendo alcuni stralci di quegli articoli.
Era la notte tra il 26 e il 27 dicembre 1996, l’alba del primo governo «progressista» italiano, della «terza via» di Blair e di Clinton e dell’avvento della «fortezza Europa». Meno di due anni dopo, con la legge Turco-Napolitano, sorsero i Cpt (Centri di Permanenza Temporanea), per la prima volta veniva sancito per legge la detenzione per (anche, se non soprattutto, presunte) violazioni amministrative, le cronache degli anni successivi dal Serraino Vulpitta di Trapani al «Regina Pacis» di Lecce furono inondate di tragedie che a molti hanno riportato alla memoria luoghi come i lager che in Europa si pensava non dovessero più tornare.
La strage del Natale 1996 – ricordava diversi anni fa l’Associazione Diritti e Frontiere – «venne per tanto tempo negato al punto da parlare di nave fantasma. Solo l’impegno di pochi antirazzisti, fra cui quello che forse rappresenta ancora oggi l’esempio più lucido di tali battaglie, Dino Frisullo, e di pochi altri giornalisti, portò a rendere realtà quello che si voleva celare. Si era verificata allora quella che rimase per anni come la più grande strage del mare Mediterraneo dalla Seconda Guerra Mondiale». Dino Frisullo solo molto tempo dopo iniziò ad utilizzare l’email, a dimostrazione di come la passione e l’impegno possono essere molto più forti di tutto, una lezione nell’epoca dei social e dei mezzi tecnologici più potenti possibili.
Eppure meno di un anno dopo scrisse la ricostruzione più accurata mai realizzata di quella notte, delle settimane precedenti e della catena affaristico-mafiosa che uccise i naufraghi di quella notte, negli articoli pubblicati sul numero di settembre 1997 della rivista Narcomafie «Buon Natale, clandestino» e la «holding degli schiavisti». «L’immagine più atroce» di quella notte scrisse Dino, «è quella di un ragazzo indiano che si trascina a bordo perdendo sangue persino dagli occhi e muore quasi subito, e il capitano fa ributtare in mare il cadavere minacciando con la pistola gli scampati che chiedono di seppellire almeno lui in terraferma».
Quella notte la nave Yohan naufragò, dopo aver navigato per quasi venti giorni tra Malta e la Sicilia, e 289 persone rimasero uccise. La prima notizia della tragedia fu battuta il 4 gennaio 1997 dall’agenzia Reuters: alcune persone di origine asiatica, arrestate in Grecia, affermavano di essere superstiti di un naufragio. La notizia non ebbe alcuna risonanza e i morti di quella notte divennero fantasmi per tanti. Insieme a Dino Frisullo e all’associazione Senzaconfine, fondata insieme ad Eugenio Melandri, solo Il Manifesto si interessò subito alla vicenda.
«31 pakistani, 166 indiani, 92 cingalesi, tutti di etnia tamil, tranne 4» le nazionalità dei 289 morti annegati. «Se è vero che il battello era giunto all’appuntamento già con un carico di circa 50 persone da Malta, come risulta dall’inchiesta di Bonello su The Malta Indipendent del 9 marzo, il numero degli scomparsi si avvicina ai 400. Forse da questo dipendono alcune discrepanze: i tamil lamentano 140 dispersi, non 92». Una strage rimossa dalla memoria collettiva perché, denunciò Dino Frisullo, «conoscere le circostanze, i responsabili, ancora in piena attività, metterebbe in crisi non solo le politiche dell’immigrazione o dell’antimafia, ma l’idea che abbiamo di noi stessi e della nostra civiltà».
La Yohan (la nave principale della spedizione) – la ricostruzione in «Buon Natale Clandestino» – rimase in navigazione tra Malta e la Sicilia per venti giorni, durante i quali ai «quasi 500 essere umani rinchiusi in una stiva, con una o due ore d’aria» venne dato «un quarto di litro d’acqua e un pezzo di pane, poi sostituito da un pugno di riso senza sale».
La nave identificata con il codice F-147, che doveva prelevare i migranti presenti sulla Yohan e portarli nei pressi della costa coordinandosi con la Yohan, la urtò quella notte provocando la strage: dopo un primo urto tra le due navi, «l’F-174 inizia a imbarcare acqua a prua. Ma si parte ugualmente: sono, secondo il capitano, a 30 km dalla Sicilia». La falla aumentò sempre più e fu chiamata in soccorso proprio la Yohan. Nel momento in cui si avvicinarono avvenne il naufragio: la Yohan speronò l’F-174 «spaccandolo in tre pezzi, fra cui relativamente integra la poppa, sotto cui centinaia di uomini stanno chiusi nelle celle frigorifere».
Solo quattro ragazzi riuscirono a salire sulla Yohan e a salvare altre 25 persone (un altro naufrago superstite parlerà di 19 salvati ma, sottolinea Dino su Narcomafie, il numero più attendibile fu 25) lanciando salvagenti, giubbotti e pezzi di legno. Il 28 febbraio la Yohan venne bloccata a Reggio Calabria dopo lo sbarco di 155 migranti, cingalesi e pakistani. Sulla stampa italiana solo Il Manifesto e Liberazione riportarono la notizia. I naufraghi di quella notte rimasero invisibili fino al 2011 quando un pescatore di Portopalo trovò tra la reti uno dei loro documenti d’identità. Un ragazzo che aveva la stessa età della figlia, circostanza che smosse la sua coscienza portandolo a non tacere e ad impegnarsi per cercare di restituirgli giustizia.
Il 9 aprile 2008 il capitano della Yohan, El Hallal, e il 12 marzo 2009 l’organizzatore del «viaggio», l’armatore Thourab, furono condannati a 30 anni di reclusione. Ma i Governi italiani in questi anni non si sono mai realmente interessati alla loro estradizione e le condanne sono rimaste finora solo sulla carta. El Hallal in questi anni è anche comparso sporadicamente su facebook insultando Dino Frisullo, da lui definito persino il «boss di Senzaconfine», e Alessia Montuori che, dopo la morte di Dino, divenne segretaria e anima dell’associazione oggi presieduta dall’avvocato Simonetta Crisci. Più volte negli anni i parenti delle vittime chiesero di essere ascoltati, invano. Il pakistano Balwant Singh Khera aveva realizzato un dossier sull’organizzazione dei trafficanti utile all’indagine, nel 2005 viene chiamato a testimoniare, ma gli fu negato il visto d’ingresso in Italia e così non gli fu permesso farlo.
L’inchiesta sulla strage di Natale 1996, denunciò Dino Frisullo nel 2001 dalle pagine de Il Manifesto, «proseguì stancamente, senza risalire la catena assassina oltre gli ultimi esecutori, senza discendere nel mare di Sicilia». Nell’inchiesta «la holding degli schiavisti» quattro anni prima Dino documentò «la fotografia della catena imprenditorial-criminale, con testa turca, armatori greci e tentacoli protesi dai villaggi del Kurdistan e del subcontinente indiano fino alle coste italiane, che mercifica i fuggitivi dalla miseria dell'India e del Pakistan e dalle guerre del Kurdistan, dello Sri Lanka, del Kashmir».
Il centro dei traffici – secondo l’inchiesta di Dino Frisullo – era Istanbul, dove la mafia turca era «libera di operare quasi alla luce del sole» godendo «della copertura e della connivenza delle autorità». Ma nulla avvenne da parte delle autorità e dei governi italiani ed europei che, molti anni dopo, per «governare l’immigrazione» finanziarono con milioni e milioni di euro il governo turco.
2024-06-14 11:51:59
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