La Giornata del ricordo è stata istituita per commemorare le vittime delle foibe. Dopo aver raccolto le parole dello storico Gobetti abbiamo allargato il ragionamento con il professore Giovanni Cerchia, docente di Storia Contemporanea presso l’Università degli del Studi Molise. E siamo partiti proprio dalle foibe. “Inizialmente, sembrava un tentativo di riequilibrare – ha spiegato Cerchia – il Giorno della Memoria (27 gennaio), ma nel tempo è diventata un’occasione significativa per approfondire la storia e il dibattito pubblico”. Anche per il docente dell’Unimol esiste un tentativo di riscrivere la storia per mettere in discussione la matrice antifascista della Repubblica Italiana. “Equiparare la Resistenza agli eccidi delle foibe serve a ridimensionare il ruolo della lotta di Liberazione e a legittimare posizioni che furono sconfitte dalla storia”. L’esercizio della memoria è fondamentale, nel Paese senza memoria. “L’Italia ha avuto una memoria storica travagliata, perché ha vissuto sia da invasore che da resistente. Dopo la guerra, molti apparati dello Stato rimasero nelle mani di ex funzionari del regime fascista”. Ci siamo allargati, toccando anche l’attualità. Oggi assistiamo a un crescente uso politico della storia e a una preoccupante riabilitazione di simboli e figure del passato fascista, attraverso saluti romani e commemorazioni discutibili. “L’Italia ha gli strumenti per contrastare questi fenomeni, ma solo con un impegno costante nella difesa della democrazia”.
Ma era necessaria l’istituzione di questa giornata?
«L’impressione è che è stata fatta come una sorta di risarcimento nei confronti del Giorno della Memoria. Visto che c’è, la utilizziamo. La conoscenza storica e la memoria sono comunque importanti per la democrazia e per la vicenda repubblicana. Quindi va bene così, nessuno la vuole contestare. Certo è singolare, mi permetto di segnalare, che sia stato scelto il 10 febbraio, il giorno della sottoscrizione del Trattato di Pace dell’Italia a Parigi, il giorno in cui si certifica la sconfitta del Paese dalla guerra fascista. Avrei scelto una data diversa, per ricordare una tragedia vera, come quella del confine nord-orientale. In ogni caso ci sta e dobbiamo essere tutti impegnati. Ormai faccio più cose nel Giorno del ricordo. Bisogna spiegare e contestualizzare, mai giustificare».
Cosa significa?
«Bisogna contestualizzare, riconoscere le questioni e in qualche modo farle vivere in maniera corretta ed equilibrata nel nostro dibattito pubblico».
In questi anni come è stata utilizzata questa giornata?
«Al principio ho l’impressione che sia stato un tentativo di riequilibrio rispetto alla data precedente, il 27 gennaio, poi dopo ho visto molto impegno da parte anche dell’Accademia come dell’associazionismo democratico. Alcune volte indignati perché si è raccolto questo elemento di riequilibrio, ma sbagliando. Non si può rispondere a quella radicalità con un’altra radicalità. Con il passare del tempo vedo molte iniziative che danno un contributo vero. Quindi alla fine è diventato anche un appuntamento significativo».
Cosa sono le foibe?
«Sono delle cavità carsiche che vivono in quel particolare territorio del nord est, a cavallo tra la Slovenia e l’Italia, tra l’ex Jugoslavia e l’Italia, che venivano utilizzate, tradizionalmente, per smaltire i rifiuti. Poi vennero riconvertite anche per far sparire i cadaveri dei propri nemici. Sono cavità che sono state utilizzate sia nella lotta antipartigiana, da parte delle forze occupanti, e poi anche dalla reazione, dalla resa dei conti che in due momenti distinti, vide protagoniste, invece, le forze del movimento di Liberazione jugoslava. Subito dopo l’8 settembre, per alcuni giorni, facendo centinaia di morti, tra 500 e 800 morti all’incirca, e poi facendone invece migliaia nel mese che va dal maggio al giugno del 1945, quando l’esercito jugoslavo arriva per primo a Trieste, occupa la città e il territorio circostante e prova a costruire le condizioni per l’annessione di quel territorio alla nuova Jugoslavia. Adottando, grazie alla polizia politica, l’Ozna che era legata al nuovo Stato jugoslavo, le stesse tecniche epurative che Stalin aveva adottato nella seconda metà degli anni Trenti nell’Unione Sovietica per mettere in sicurezza, in termini preventivi, il proprio potere. Spazzando via, per esempio, tutto il gruppo dirigente bolscevico della prima ora. Colpendo con una purga verso il basso anche centinaia di migliaia di cittadini considerati pericolosi in ragione della loro estrazione sociale, piuttosto che della loro nazionalità o dell’appartenenza a un certo territorio. Quindi le foibe sono diventate il simbolo di quella stagione».
Tutti finiscono nelle foibe?
«Sia nella prima che nella seconda fase, sia dopo l’8 settembre che nel maggio e giugno del 1945, la stragrande maggioranza delle vittime non viene uccisa e gettata nelle foibe. Qualche volta viene gettata anche viva, a dire la verità, stando ad alcune testimonianze. Ma la stragrande maggioranza muore nei campi di internamento che vengono attrezzati dalla polizia politica jugoslava. Volendo ragionare sull’ampiezza del fenomeno c’è anche un uso improprio del termine “foiba” per descrivere il problema vero della repressione e dell’epurazione che colpì quell’area. Non fu un’epurazione di carattere razziale, non si trattava di colpire gli italiani, ma di colpire tutti gli elementi che potessero rappresentare un pericolo o non garantissero l’annessione di quella parte del territorio al nuovo Stato jugoslavo. Tant’è vero che colpirono tutti, colpirono sia coloro che erano stati individuati come rappresentanti dello Stato occupante, dello Stato fascista, chiunque avesse una divisa, ma anche antifascisti, partigiani. Grazie all’ANPI abbiamo fatto un’iniziativa su un partigiano italiano, originario di Caserta, ammazzato perché apparteneva una formazione che non era in linea con questa progettualità. Ma anche tanti altri che italiani non erano, sui quali si esercitò una resa dei conti politica o la messa in sicurezza preventiva uguale a quella che si stava esercitando nei confronti di altri soggetti. Quindi una situazione molto più complessa delle semplificazioni e delle sciocchezze che vengono raccontare».
A proposito di sciocchezze, perché si cerca sempre di equiparare i due momenti storici: la lotta di Liberazione con la questione delle foibe?
«Perché si tenta di depotenziare la lotta di Liberazione. In qualche maniera in discussione non è il passato, in discussione è il presente, la matrice antifascista della Repubblica democratica italiana. La messa in discussione di quella matrice serve a legittimare gli sconfitti di quella stagione che pretendono di avere uno spazio, una voce in capitolo che in realtà non avrebbero, non perché non possono starci. Governano il Paese. Lo fanno perché sono sconfitti, lo fanno in ragione del perimetro dei valori e delle Istituzioni che sono sorti sulle ceneri della loro sconfitta. La messa in discussione di quella matrice presuppone una rimessa in discussione di tutto. Evidentemente è un progetto per l’oggi e per il domani, non è tanto il passato. Noi parliamo del passato, ma in realtà stiamo discutendo molto di quello che accade sotto i nostri occhi».
Lo storico Gobetti, nel suo libro sulle foibe, a un certo punto parla delle onorificenze che sono state concesse ai congiunti degli infoibati: “fascisti conclamati, responsabili di crimini di guerra commemorati da uno Stato nato dalla lotta di Liberazione”. Tutto questo rappresenta la normalità?
«Quando si parla di vittime alzo sempre le mani. Non ha tutti i torti Gobetti a ricordarci di questi fenomeni. Non è tutto ovviamente così, ci sono molte vittime che non hanno nulla a che vedere con l’esperienza fascista e con i criminali fascisti. Allo stesso tempo, però, su questo non insisterei, perché sul tema delle vittime deve prevalere sempre la pietà, sia dall’una che dall’altra parte. Certo, è vero che noi viviamo un’esperienza ambigua come italiani, nel senso che siamo stati invasori e resistenti, quasi allo stesso tempo. Mi sono capitati tra le mani almeno due o tre relazioni di soldati italiani che hanno partecipato alle Quattro Giornate che, prima dell’8 settembre, erano all’estero a fare i soldati. Erano sergenti, giovani ufficiali, addirittura un maggiore, che stavano tra la Croazia e gli altri territori dei Balcani. Erano occupanti di quel territorio e che, dopo l’8 settembre, sono tornati in Italia e sono stati nominati partigiani combattenti. Hanno partecipato all’attività della Resistenza. Il colonnello Pietro Testa, il sottocapo di Stato Maggiore del VI Corpo d’Armata in Croazia, è anche uno dei più noti redattori di una delle più belle memorie sugli internati militari italiani. L’altra Resistenza, quella di coloro che rifiutarono di partecipare alla guerra con le divise dell’RSI (repubblica sociale italiana, nda) o di collaborare direttamente con il Terzo reich. Una storia straordinaria che andrebbe valorizzata. Molti di loro appartenevano a unità che stavano nei territori d’occupazione, compresi i Balcani, il principale scenario operativo della guerra italiana e non solo. Il caso emblematico del colonnello Testa: un importante ufficiale presente su quel territorio e allo stesso tempo una delle figure più rappresentative della memoria sull’altra Resistenza. Dobbiamo, in qualche maniera, prendere atto dell’ambiguità della nostra esperienza, del modo in cui abbiamo attraversato questa guerra».
In Italia abbiamo fatto i conti con la nostra storia?
«Abbiamo fatto i conti con difficoltà, proprio perché avevamo una memoria molto travagliata da questa ambiguità. Abbiamo avuto un’esperienza anfibia, siamo stati “questo” e “quello” contemporaneamente. Ed è difficile fare i conti. La Germania e il Giappone sono crollate nella guerra, chi sotto la bomba atomica, chi sotto l’occupazione. Una divisione che è durata mezzo secolo. Noi siamo stati un paese fascista, con le leggi razziali, che inizia la guerra a fianco di Hitler e poi c’è la Resistenza. E ci sono molti punti di contatto tra i protagonisti dell’una e dell’altra parte. Quella è una vicenda difficile da sciogliere, senza contare che siamo anche paese di frontiera della Guerra Fredda che costringe i governi della Repubblica ad assumere un atteggiamento molto rigido. Il centrismo che congela la Costituzione e dà continuità agli apparati repressivi dello Stato: magistratura, forze dell’ordine ed esercito sono i quadri cresciuti nella vicenda precedente. Non si possono processare, non si possono neanche epurare. Uno dei primi presidenti della Corte Costituzionale era quel Gaetano Azzariti che era anche presidente del “tribunale della razza” (antisemita convinto, poi anche ministro del governo Badoglio, nda). Questa cosa mi ha sempre sconvolto, ma non è l’unico caso».
Mi viene in mente l’episodio di Pertini, comandante della Resistenza, in quel periodo Presidente della Camera, quando incontrò e non strinse la mano al questore di Milano Marcello Guida.
«Commissario che governava il suo luogo di confino, a Ventotene».
E il fascista Guida lo ritroveremo anche nella drammatica vicenda dell’Anarchico Giuseppe Pinelli, scaraventato dalla Questura di Milano dopo la Strage di Stato milanese.
«Sì, uno dei casi meno eclatanti. Ha fatto molto rumore perché ha riguardato Pertini. Tutti i quadri superiori della nostra polizia, ma anche dei carabinieri, hanno transitato dentro il Ventennio. Guido Leto, uno dei più straordinari poliziotti della storia italiana, un uomo di straordinaria intelligenza, che è stato a lungo ai vertici della polizia italiana durante il regime fascista che, con qualche mal di pancia, sembra che prestò servizio anche nella RSI, dopo la guerra, dopo la prima epurazione venne riammesso in servizio e terminerà la sua carriera come direttore della divisione della polizia di Frontiera. Non viene riammesso agli Affari Generali, la vecchia divisione della polizia politica, però continua, senza colpo ferire, a vestire la divisa e a rappresentare lo Stato. Vale per lui come vale per tanti altri. Saverio Polito, questore di Roma, anche lui ex Ovra, che fu accusato da donna Rachele Mussolini. Pare che avesse tentato di violentare addirittura la moglie del Duce, dopo averlo portato al confino. E per questa ragione venne poi processato dalla RSI. E questo servì da titolo di merito per essere reintrodotto in servizio. Ho trovato carte in cui Polito si preoccupa non di sorvegliare i fascisti, appena nata la Repubblica. Mandava rapporti contro gli ex gappisti romani (Gap, gruppi di azione patriottica, nda). La polizia, su mandato di Polito, sorvegliava gli ex partigiani romani parlandone in maniera assolutamente non positiva. Questo era il clima e questi erano gli uomini».
A proposito di clima, mi ha colpito una frase di Liliana Segre. La senatrice ha affermato che “con la morte degli ultimi superstiti rischiamo di dimenticare cosa è stata la Shoah”. Cosa ne pensa di questa riflessione?
«Sicuramente è un rischio, però non dimentichiamo tanti altri fatti storici del passato, nonostante non ci siano più i protagonisti. È più complicato, questo ci chiama a un impegno di testimonianza civile e politica, prima ancora che scientifica. Bisogna saperlo fare sempre con equilibrio, con serenità e con serietà. Sapendo di non avere più a disposizione i diretti protagonisti di quella vicenda, ma di poter contare sugli strumenti del mestiere, sulle fonti a disposizione per poter continuare a raccontare».
Oggi in questo Paese che aria si respira?
«Una domanda quasi retorica».
È una domanda retorica.
«L’aria che si respira è malefica. C’è un costante tentativo di uso pubblico della storia e di sofisticazione della verità. Non pensavo che si potesse arrivare a tanto, senza quasi più vergogna. Importanti rappresentanti istituzionale, a viso aperto, sostengono cose indecenti che non hanno alcun fondamento storico. Siamo immersi nel tentativo di riscrivere il passato per mettere mano al presente. Esiste un problema politico evidente sul quale come cittadini, come democratici, dobbiamo essere impegnati in una attività quotidiana di contrasto».
E se aggiungessimo i saluti romani, che vediamo anche nelle sedi istituzionali, i busti del farabutto che appartengono ai rappresentanti delle istituzioni e gli episodi di violenza che si registrano? Questi sono fatti che possiamo far rientrare in episodi goliardici o è un campanello d’allarme che in questi anni ci sta avvisando di qualcos’altro?
«La seconda ipotesi. La goliardia è la giustificazione che ogni tanto tirano fuori, quando vengono presi con le mani nella marmellata. Questo mi pare assolutamente evidente. Siamo di fronte a una stagione in cui alcuni pensano che si possa fare ciò che non avevano neanche più immaginato fosse possibile fino a ieri. Stanno provando a spostare il più possibile in avanti la frontiera delle loro possibilità. Devono sapere che l’Italia è nata dalla Resistenza e ce l’hanno consegnata i nostri nonni. I nipoti non credo che siano molto disponibili a riconsegnarla nelle mani di quelli che hanno prodotto leggi razziali e ci hanno portato in una devastante guerra mondiale».
Questo Paese ha gli anticorpi?
«Questo Paese ha la possibilità di contrastare questo processo. Se lo vuole fare, lo sa fare. Lo ha già dimostrato. Gli anticorpi si dice che sono già in azione, questo vorrei capirlo meglio. Diciamo che ha la possibilità di contrastare questi fenomeni. Molto sta alla nostra responsabilità individuale. Dire che ha gli anticorpi, in qualche maniera, significa far venire meno anche la nostra responsabilità. Se non ci impegniamo, in maniera quotidiana, per riaffermare i valori collettivi della democrazia, non c’entrano nulla la destra e la sinistra, gli anticorpi non si producono. Gli anticorpi sono figli dei nostri quotidiani atti di responsabilità, Resistente e Antifascista».
E nel mondo qual è l’area che si respira?
«C’è una destra internazionale che reagisce, che trova uno spiraglio per radicarsi, diventare molto più forte dentro le ansie vere di una popolazione che è sconvolta dai processi di globalizzazione lasciati a sé stessi. Questi processi, abbandonati alle logiche del mercato, senza agenzie istituzionali in grado di garantire i diritti individuali e i collettivi, hanno prodotto un’ansia e una richiesta di protezione alla quale la destra ha dato una risposta più forte e migliore della sinistra. Non una destra moderata, ma una destra radicale che ha guardato, come proprio fondamento, alle radici etniche e all’alleanza con l’identità confessionale. È una destra che va da Putin e arriva a Trump, passando per l’Ungheria e l’Italia, avendo come partner anche l’attuale governo di Israele. Mi sembra una situazione molto pericolosa».
A proposito di Trump e della sua pericolosa provocazione. Ma è la storia che si ripete nel corso dei secoli, partendo proprio dalla violenta e sanguinaria conquista del 1492 da parte di Cristoforo Colombo? Distruggere un popolo per metterci un altro popolo in un territorio?
«C’è un’analogia, c’è l’idea che chi vince si prende tutto e lo fa a partire da un mito, che quello che si prende è vuoto, è vergine, non c’è nessuno. È il destino manifesto, realizzato negli Stati Uniti quando scartarono i nativi americani. Ed è anche la riflessione che tanta parte della cultura israeliana, soprattutto quella della destra confessionale ortodossa, compie ormai da molto tempo. Anzi quelle sono terre promesse biblicamente ad Israele».
È una proposta fattibile questa?
«È una proposta folle».
Quali potrebbero essere le conseguenze?
«Una guerra permanente. Questa cosa garantisce un odio permanente nei confronti di Israele. Già adesso non so come andrà a finire, da una parte c’è l’orribile strage di Hamas del 7 ottobre e dall’altra parte ci sono 45-50 mila morti nella reazione spropositata di Israele, con l’obiettivo di fondo di non terminarla quella guerra e di occupare quei territori. Gli Stati Uniti dicono “liberiamo Gaza e ci mettiamo gli Stati Uniti”. Nei fatti sono le condizioni per l’annessione a Israele e lascia, contemporaneamente, mano libera per la colonizzazione ulteriore della Cisgiordania. È inutile che ci giriamo intorno. L’idea di fondo è questa. Perché i paesi arabi rifiutano di accogliere un milione e mezzo di profughi?»
Perché?
«Sanno che non torneranno mai più a casa loro, questo è il punto. E tutto questo non alimenterà una guerra permanente, senza alcuna soluzione? Ed è la grande tragedia che, invece, dovrebbe mettere gli uomini e le donne di buona volontà intorno a un tavolo per trovare una soluzione. Due popoli e due Stati è già un compromesso».
Come mai?
«Significa riconoscere comunità separate su base nazionale. Una sorta di armistizio, ma già sarebbe tanto».
Esiste una soluzione?
«La soluzione migliore è l’idea di uno Stato unico, dove non c’è distinzione tra l’appartenenza religiosa e la cittadinanza. L’altra follia è questa, le basi etnico confessionali della propria appartenenza alla comunità. Invece questo è il centro del ragionamento».
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