La calligrafia, come la vita, cambia: dapprima è più rotonda, poi si fa appuntita e spigolosa.
(Fabrizio Caramagna)
Da sempre gli occhi sono considerati per antonomasia lo specchio dell’anima. Tant’è che si è soliti pensare e dire nei momenti di grande paura: “mi è passata tutta la vita davanti agli occhi”. Oppure riconoscere la felicità negli occhi di chi abbiamo di fronte. Così pure l’ansia ed il terrore! Gli occhi “non sanno mentire”, non indossano maschere e reagiscono agli stimoli emotivi con un’immediatezza che sfugge ad ogni forma di controllo razionale.
Ma esiste un altro specchio capace di rivelare, forse in maniera più sottile e complessa, chi siamo realmente: la grafia. Se agli occhi riconosciamo la possibilità di rivelarsi l’affaccio perfetto sul nostro mondo interiore, alla calligrafia invece un viaggio nell’inconscio.
Non è a caso che – occhi e scrittura – sono il risultato di un’intima connessione tra impulsi cerebrali e movimenti fisici.
Scrivere a mano è molto più del semplice gesto meccanico di riportare parole su carta: è la nostra impronta digitale, che rende visibile parte della nostra personalità sul foglio. “Dimmi come scrivi e ti dirò chi sei” descrive perfettamente la profonda verità sull’intimo legame tra la nostra calligrafia e ciò che siamo veramente.
Quando il pensiero si traduce in parole e la penna tocca la carta, è in quell’istante che si crea un collegamento diretto tra cuore, testa e mano scrivente. Una triade perfetta, una efficiente fusione espressiva che rivela aspetti della nostra personalità che spesso rimane nascosta persino a noi stessi.
La grafologia (disciplina che studia la scrittura per conoscere la personalità di chi scrive, utilizzata in molti ambiti, anche forense), insegna che la pressione della penna, il getto d’inchiostro, l’inclinazione delle lettere, il bianco (spazio) tra le parole, le lettere singole e soprattutto le imperfezioni diventano il segno distintivo della nostra personalità.
Una calligrafia ordinata e costante potrebbe rivelare una personalità ligia e attenta ai dettagli, ma, se in essa sono presenti tratti compensativi, il ritratto potrebbe cambiare. Una scrittura ampia e generosa presuppone che chi la utilizzi sia una persona estroversa e comunicativa. I caratteri piccoli e compressi nel medio invece possono indicare introversione o parsimonia emotiva.
Anche nella scrittura, così come nello sguardo, è percepibile l’insicurezza, il valore che diamo a noi stessi, la determinazione, attraverso la dimensione delle lettere.
La scrittura tremolante o fluida rivela il nostro stato emotivo del momento. L’intuizione, la creatività è riconoscibile in quelle lettere che si allungano verso l’alto. Così come un battito di ciglia può tradire un nostro tentativo di mascherare i nostri sentimenti, un dettaglio grafico, o “gesto fuggitivo” che sfugge alla censura della razionalità, è la prova tangibile che neppure la scrittura può essere del tutto controllata.
Mentre lo sguardo è qualcosa di fuggevole, provvisorio, catturabile nell’istante in cui si rivela, la scrittura è qualcosa in più: è permanente, resta impressa sulla carta a ricordare chi siamo, o siamo stati in quel preciso momento.
Il più delle volte la scrittura che utilizziamo abitualmente è di fatto una “scrittura di facciata”, che racconta di noi secondo i canoni che la società impone ed il desiderio di accettazione; potremmo definirla il nostro io sociale. La si apprende sin dai primi giorni di scuola, dove si viene addestrati a seguire modelli calligrafici standardizzati, a rispettare gli spazi, le righe del foglio, una specifica inclinazione e la proporzione tra lettere. Una sorta di annullamento della propria personalità, che poi si ritrova ed affina nella fase adolescenziale, dando alla grafia il proprio stile e che rifletta la nostra vera essenza.
C’è un momento però in cui lasciamo cadere definitivamente la nostra “maschera sociale” e lasciamo emergere il nostro vero io, la nostra personalità: quando apponiamo la nostra firma. La firma rappresenta l’apertura totale all’espressione dell’io reale. Non ci importa più che sia leggibile, ordinata, o che gli altri la trovino incomprensibile. Rimane comunque valida, inopinabile, è la nostra identità.
Chi siamo veramente lo rivelano i ghirigori audaci, le linee decise o esitanti, l’ampiezza o la riservatezza del tratto e la grandezza delle iniziali. Paradossalmente, nel momento di massima adesione alle convenzioni sociali (firmare un contratto, un documento ufficiale), troviamo la spinta, il coraggio e lo spazio per affermare chi siamo.
Riconoscere le differenze tra la scrittura ordinaria e la firma significa scrutare la distanza che intercorre tra la maschera sociale che indossiamo e il vero volto che nascondiamo. Quanto più è ampia la distanza tanto più probabilmente viviamo una dissociazione tra il ruolo che interpretiamo e la nostra autentica natura.
Quanto più invece le due mostrano elementi di coerenza, tanto più siamo riusciti ad adattare le esigenze sociali a noi stessi.
Nello spazio che si frappone tra asservitismo e originalità, tra spontaneità e controllo, si nasconde l’inquietudine della personalità. Questa consapevolezza può trasformare il semplice gesto di scrivere su foglio bianco in uno strumento di autoconoscenza, permettendoci di riconoscere la nostra autodeterminazione.
Scrivere a mano è la capacità di collegare direttamente il pensiero all’azione, senza filtri. La grafia rimane uno specchio che riflette chi siamo veramente, al di là di ogni maschera.