La politica italiana ama la reiterazione: stessi nomi, stesse facce, stessi leader che tornano sempre, come se il tempo non passasse. Ma a volte, ad interrompere questo ciclo arriva un atto chiaro, netto, che rimette le cose in ordine. È ciò che è accaduto con la recente pronuncia della Corte Costituzionale, che ha stabilito in modo definitivo la legittimità dei limiti ai mandati dei presidenti di Regione. Tradotto: per Vincenzo De Luca e Luca Zaia, la possibilità di ricandidarsi è, di fatto, preclusa.
È un verdetto destinato a cambiare lo scenario politico locale, ma anche a segnare un punto fermo in termini di diritto costituzionale. Per anni si è vissuto in un limbo interpretativo, dove il carisma dei leader sembrava valere più delle regole. La politica, spesso restia a mettere paletti ai propri uomini forti, ha lasciato spazio a un’interpretazione elastica delle norme statutarie regionali. Ma ora, a ristabilire la gerarchia tra potere e regole, è intervenuta la Corte.
Lo ha fatto con una decisione di principio: la limitazione ai mandati non solo è legittima, ma è anche necessaria per garantire un corretto equilibrio democratico. Non si tratta di una sanzione personale, né di un giudizio sull’operato dei singoli presidenti. Si tratta del riconoscimento che nessun potere può essere esercitato a tempo indefinito, anche quando poggia su un forte consenso popolare.
È una lezione che arriva proprio mentre due dei governatori più longevi e influenti d’Italia – De Luca in Campania e Zaia in Veneto – si preparavano, più o meno apertamente, a valutare un nuovo giro di giostra elettorale. Il primo con il suo stile ruvido e carismatico, il secondo con il suo profilo più istituzionale e “governativo”, entrambi protagonisti assoluti delle rispettive Regioni. Eppure, proprio questa loro centralità rischiava di diventare un’anomalia democratica.
Il rischio, infatti, non era solo quello di trasformare le Regioni in “feudi elettorali”, ma di rendere il ricambio democratico una pura formalità. Una democrazia sana, invece, si misura anche nella capacità di rinnovare la propria classe dirigente, senza restare ostaggio di chi ha saputo consolidare il consenso ma non lasciare eredi politici.
La sentenza della Consulta ha dunque una doppia portata: giuridica e simbolica. Giuridica, perché impedisce eventuali tentativi di forzare la norma nei prossimi mesi; simbolica, perché riafferma l’idea che il potere è un servizio temporaneo, non una rendita permanente.
Certo, non mancheranno i tentativi di aggirare l’ostacolo: ipotesi di modifiche statutarie, ricorsi, pressioni politiche. Ma ora il punto fermo è stato messo. E chiunque voglia continuare a giocare la carta del “non c’è alternativa”, dovrà farlo contro il diritto, non più nell’ambiguità.
È tempo, allora, di guardare avanti. Di costruire nuove leadership locali, di selezionare classi dirigenti non sulla base del carisma ma della competenza. È il momento di far maturare la democrazia anche nei territori, spesso considerati terra di conquista personale.
Ma guardare avanti significa anche guardare con fiducia e con la volontà concreta di premiare il merito, non le conoscenze o i legami di convenienza. Perché se a ogni svolta ci limitiamo a sostituire un nome con un altro scelto per appartenenza, per affiliazione o per amicizia, allora non stiamo costruendo niente. Stiamo solo rincollando le stesse maschere su un teatro che non diverte più nessuno.
Il rischio è quello di continuare a dare spettacolo, ma nel senso peggiore del termine. Di mostrare al Paese, ancora una volta, che la politica è una recita dove i ruoli si assegnano per raccomandazione e non per capacità. E a quel punto, non possiamo lamentarci se fuori ci chiamano pagliacci.
È il momento di fare sul serio. Di scegliere chi ha una visione e un progetto, chi può portare valore reale alle istituzioni, chi non ha paura di cambiare. La fine dei leader eterni può essere una liberazione, ma solo se decidiamo davvero di voltare pagina.
La risposta politica, culturale ed istituzionale non può più attendere.