Sanzioni alla Russia, nessuna a Israele: il doppio standard della comunità internazionale
La guerra in Ucraina ha prodotto una reazione immediata e compatta da parte dell’Occidente: un’ondata senza precedenti di sanzioni economiche, commerciali e finanziarie contro la Russia. Dal congelamento degli asset di oligarchi e istituzioni bancarie, all’embargo su petrolio e gas, fino all’espulsione di Mosca da eventi culturali e sportivi.
Una risposta dura, motivata dalla violazione del diritto internazionale e dalla tutela della sovranità di uno Stato democratico.
Ma a migliaia di chilometri di distanza, in un’altra parte del mondo devastata dalla guerra, la reazione è completamente diversa. Di fronte alle operazioni militari condotte da Israele nella Striscia di Gaza – che, secondo diverse ONG internazionali e l’ONU, hanno provocato decine di migliaia di vittime civili, tra cui moltissimi bambini – non si è alzato alcun embargo, nessuna esclusione diplomatica, nessuna sanzione vera e propria. Perché?
Il motivo non è giuridico, ma squisitamente politico ed economico. Israele è un alleato strategico degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Medio Oriente. Una roccaforte militare, tecnologica e di intelligence in una regione instabile. Colpirlo con sanzioni significherebbe incrinare equilibri delicatissimi e rischiare ripercussioni a livello globale.
D’altra parte, la Russia è vista da tempo come un rivale geopolitico dell’Occidente. Le sanzioni non sono solo uno strumento di pressione per fermare la guerra in Ucraina, ma anche un modo per contenere l’influenza russa in Europa e nel mondo.
Questa asimmetria nelle reazioni internazionali si riflette anche nella narrazione dominante. L’aggressione della Russia è descritta in questi termini: un’invasione, una violazione del diritto internazionale, un dramma umanitario. Il conflitto israelo-palestinese, invece, viene spesso raccontato come una “guerra difensiva”, un “conflitto complicato”, con responsabilità sfumate.
La retorica del “diritto all’autodifesa” di Israele domina lo spazio mediatico, anche quando vengono colpiti ospedali, scuole, campi profughi e operatori umanitari. Le voci palestinesi e le denunce delle organizzazioni umanitarie vengono spesso marginalizzate.
Infrastrutture civili sono state rase al suolo, l’accesso a cibo, acqua e cure mediche è pressoché inesistente. Eppure, nessuna misura economica punitiva è stata attivata contro Israele. Nel frattempo, l’Occidente continua a vendere armi a Tel Aviv, a rafforzare le relazioni commerciali e a bloccare le risoluzioni ONU che chiedono un cessate il fuoco immediato o un’indagine internazionale.
Questa disparità di trattamento alimenta l’idea di un mondo basato su due pesi e due misure, dove i diritti umani valgono solo quando a violarli sono gli “altri”. Un sistema internazionale che si mostra severo con gli avversari e indulgente con gli alleati.
Non è solo una questione etica, ma anche di credibilità: come può l’Europa o l’ONU farsi promotori di pace e giustizia globale se restano in silenzio di fronte a quella che molti giuristi e osservatori definiscono una catastrofe umanitaria e un potenziale crimine di guerra?
Sanzionare la Russia e non Israele non è una svista, ma una scelta politica consapevole, che riflette gli interessi e le alleanze dell’attuale ordine mondiale. Ma la coerenza è un valore imprescindibile per chi si professa difensore della legalità internazionale. Senza coerenza, il diritto si trasforma in propaganda e la giustizia in un’arma a orologeria.
Il silenzio non è neutralità: è complicità.