SOMMA VESUVIANA – È più di una nota stonata. È un’intera sinfonia di simboli sbagliati quella che si è levata durante la funzione religiosa che ha unito in matrimonio un membro della famiglia Porricelli con una D’Avino. Il brano in questione? La colonna sonora de “Il Padrino”, suonata in chiesa, davanti a un altare consacrato.
Una scelta che non può passare inosservata, specie in un territorio come Somma Vesuviana, dove la camorra – quella vera, non cinematografica – continua a essere una presenza viva, radicata, e tutt’altro che sconfitta. Una terra dove ogni gesto, ogni simbolo, ogni nota musicale può diventare messaggio, richiamo, sussurro di potere.
La musica nella liturgia non è un semplice sottofondo. Ha una funzione precisa: elevare lo spirito, favorire il raccoglimento, accompagnare la comunità verso il mistero della fede. In questo contesto, l’uso di una melodia come quella de Il Padrino – legata indissolubilmente nell’immaginario collettivo alla mafia, alla violenza, al potere criminale – appare quanto meno fuori luogo, se non profondamente inopportuna.
Non si tratta solo di un errore estetico o di cattivo gusto. È qualcosa che urta la sensibilità collettiva, che risuona male soprattutto alla luce della figura pubblica dello sposo, membro di una famiglia già nota alle cronache giudiziarie per condanne legate alla criminalità organizzata.
E qui arriva la domanda cruciale: cosa sapeva Don Nicola, il sacerdote che ha celebrato la funzione, della scelta musicale? Ha autorizzato consapevolmente l’esecuzione del brano o si è trattato di una decisione unilaterale, magari imposta o sfuggita al suo controllo?
Abbiamo tentato di contattarlo telefonicamente per chiedere chiarimenti diretti, ma non abbiamo ricevuto risposta. Restiamo, come sempre, disponibili a raccogliere e pubblicare la sua versione. Il confronto, su temi come questo, è doveroso.
Il messaggio implicito di quella musica è potente. La Chiesa cattolica, in particolare attraverso le parole di San Giovanni Paolo II, si è espressa con fermezza: la mafia è una cultura di morte, una realtà radicalmente incompatibile con il Vangelo. Ogni tentativo di relativizzazione, ogni indulgenza simbolica, rischia di minare la credibilità della Chiesa stessa, soprattutto agli occhi dei fedeli più fragili, dei giovani, delle vittime.
Un altare non può diventare palcoscenico per l’estetica mafiosa. Ogni liturgia è un atto pubblico, un messaggio collettivo, e l’eco di certe scelte arriva ben oltre le mura della chiesa. In un territorio segnato dalla criminalità organizzata, la prudenza pastorale dovrebbe trasformarsi in coraggio profetico.
Rivolgiamo un appello pubblico a Don Nicola: ci aiuti a capire.
Ci dica come è stato possibile che una colonna sonora così carica di ambiguità e memorie criminali abbia potuto risuonare durante un sacramento. Ci spieghi se quella scelta è stata una distrazione, una concessione o – peggio – una forma di accondiscendenza culturale.
La comunità ha il diritto di sapere. E la Chiesa, in territori feriti come Somma Vesuviana, ha il dovere di essere segno di rottura, non di continuità. Perché il Vangelo, per usare le parole di Don Tonino Bello, non si celebra in ginocchio davanti al potere, ma in piedi, accanto agli ultimi, contro ogni forma di oppressione e illegalità.
Nozze sulle note de Il Padrino e i legami scomodi della famiglia Porricelli