La verità non è un’opinione. E nemmeno una sfumatura. Con la sentenza n. 13200 del 18 maggio 2025, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione tracciano una linea netta nella complessa materia della diffamazione a mezzo stampa. La pronuncia si inserisce in un contesto giurisprudenziale da tempo attraversato da contrasti, chiarendo definitivamente i limiti dell’esimente del diritto di cronaca, anche quando si tratta di cronaca giudiziaria basata su fonti ufficiali.
La vicenda trae origine da un articolo pubblicato da “L’Espresso” nel 2013, nel quale un noto amministratore di banca veniva indicato come imputato per una truffa da cinque milioni di dollari. In realtà, all’epoca dei fatti era soltanto indagato e il reato ipotizzato era una tentata truffa, e non una truffa consumata.
Il giornalista e la testata editoriale si difesero sostenendo che la notizia derivava da un atto giudiziario (l’avviso di conclusione indagini) e che la differenza fosse “marginale”. Ma la Corte d’Appello di Roma aveva già condannato autore, direttore e casa editrice al pagamento di 25.000 euro di danni, oltre alla sanzione pecuniaria e alla pubblicazione della sentenza.
Richiamando l’interesse generale al rispetto della verità putativa, la Cassazione afferma che:
“Non è configurabile il diritto di cronaca giudiziaria quando si attribuisce falsamente a una persona la qualità di imputato anziché di indagato, o si descrive un reato diverso da quello effettivamente contestato, a meno che il contesto della pubblicazione non chiarisca in modo inequivoco che si tratta di un’ipotesi o di una proiezione”.
In altre parole, non basta basarsi su un provvedimento giudiziario per essere automaticamente esonerati da responsabilità. Se l’informazione è scorretta nei suoi elementi essenziali (la qualifica giudiziaria o la natura del reato), scatta la responsabilità per diffamazione, anche se la fonte è ufficiale.
I giudici ribadiscono che, accanto alla libertà di stampa (art. 21 Cost.), esistono altri diritti costituzionalmente garantiti, come la presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) e il diritto alla reputazione. Di conseguenza, la stampa – anche quando esercita la cronaca giudiziaria – non può travisare i fatti, neanche per leggerezza o “sintesi giornalistica”.
Il parametro utilizzato dalla Corte è quello del cosiddetto “lettore frettoloso”, ovvero il fruitore medio dell’informazione, che si ferma spesso al titolo e ai passaggi evidenziati. Un’informazione scorretta o ambigua, dunque, ha un impatto reputazionale immediato e lesivo.
Il principio del giornalismo responsabile, ampiamente richiamato anche dalla Corte EDU, è il filo conduttore della sentenza. La verità putativa, su cui si fonda l’esimente del diritto di cronaca, non può essere invocata quando la notizia nasce da una ricostruzione negligente, parziale o arbitraria delle fonti.
I giudici ricordano che il giornalista ha l’obbligo di verificare con diligenza la correttezza e l’aggiornamento della notizia, specialmente quando questa si basa su provvedimenti giudiziari suscettibili di essere superati o mal interpretati.
Con questa sentenza, la Corte sancisce un principio chiaro: la cronaca giudiziaria non è una zona franca. Quando l’informazione viola i confini della correttezza sostanziale, travisando ruoli, fasi procedurali o qualifiche, non può più nascondersi dietro l’alibi del diritto di cronaca.
Un ammonimento per l’informazione frettolosa, per i titoli sensazionalistici e per quella “fretta di sbattere il mostro in prima pagina” che troppo spesso mette a repentaglio la verità e la dignità delle persone.
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