C’è un momento in cui anche il più mediocre degli strateghi capisce che la partita gli sta sfuggendo di mano. Quando le sirene non suonano più solo a Gaza o a Rafah, ma potrebbero farlo a Napoli, a Sigonella, a Trapani, a Camp Darby. E non è questione di empatia o di umanità – cose da cui certa politica sembra essere allergica – ma di calcolo. Di interesse nazionale. Di pura, brutale sopravvivenza geopolitica.
L’Italia oggi si risveglia in un mondo che ha smesso di essere prevedibile. E mentre il fumo si alza dalle macerie della Striscia di Gaza e dalle acque del Mar Rosso, nel palazzo di governo si scopre, con improvviso stupore, che forse essere lo zerbino d’Occidente ha un costo. Che forse prendere ordini e non prendersi responsabilità non è una forma d’intelligenza diplomatica, ma un’autocondanna.
E allora ecco che Giorgia Meloni, dopo mesi di silenzi assordanti, proclami retorici e viaggi simbolici in Israele, si affaccia al microfono con una timida novità: “È il momento di chiedere un cessate il fuoco a Gaza. È tempo di riprendere il dialogo con l’Iran”.
Ah, sì? Adesso?
Nel frattempo, il mondo corre. Gli Stati Uniti giocano su più tavoli: con una mano proteggono Netanyahu e con l’altra colpiscono le milizie iraniane, mentre parlano – a mezza bocca – di diplomazia. Ma la verità è che l’Iran fa paura, e non per ideologia. Fa paura perché è un attore imprevedibile, perché ha un arsenale regionale di alleati armati e perché – anche se non ha ancora la bomba nucleare – sicuramente è più vicino che mai a poterla costruire. E quando un regime isolato, autoritario e teocratico può minacciare l’esistenza di Israele, l’equilibrio salta.
È possibile far cadere il regime iraniano? In teoria sì: le donne iraniane, i giovani, le piazze, lo gridano da anni. Ma in pratica, l’Occidente ha smesso da tempo di credere nella forza della democrazia fuori dai propri confini, e si limita a usare quei volti coraggiosi come argomento retorico. Nessun piano concreto, nessun sostegno reale, solo hashtag.
È possibile un nuovo accordo sul nucleare tra USA e Iran? Forse, ma non ora. Non mentre Gaza brucia, non mentre Tel Aviv detta l’agenda, e non mentre Washington è prigioniera del suo stesso doppio gioco. Perché trattare con Teheran significherebbe riconoscerle un ruolo. E questo, oggi, nessuno ha il coraggio – o la libertà politica – di farlo.
E noi? Noi stiamo guardando il gioco da bordo campo, sperando che nessuno ci chiami in campo solo per farci da bersaglio.
Col cappello in mano, a elemosinare visibilità, a recitare la parte degli alleati fedeli, anche quando l’alleato perde la testa. Un paese che dice di voler contare di più in Europa e nel mondo, e poi non sa dire nemmeno una parola chiara davanti a un genocidio in diretta.
Perché diciamocelo: il termine “genocidio” l’abbiamo evitato come si evita un parente scomodo ai funerali. Tutti lo vedono, tutti lo sanno, ma nessuno osa pronunciarlo. Per paura di rompere un equilibrio. Che però, spoiler: è già rotto.
Ora, con le basi italiane nel mirino di possibili ritorsioni iraniane o di attacchi terroristici “simbolici”, ci accorgiamo che forse avere soldati italiani sparsi per il Mediterraneo, mandati a garantire equilibri che non ci appartengono, potrebbe comportare qualche rischio.
Che forse, a furia di stare in mezzo a tutti i fronti – senza avere mai un fronte nostro – prima o poi qualcuno spara anche a noi.
E allora cosa succede se attaccano Sigonella? Se una delle nostre navi viene colpita nel Mar Rosso? Se un contingente in Iraq diventa bersaglio di un’escalation?
Succede che ci ritroviamo impreparati. Politicamente, militarmente, psicologicamente. Succede che ci guardiamo intorno cercando solidarietà, ma senza avere davvero seminato credibilità. Perché a Gaza abbiamo detto troppo poco. Con l’Iran abbiamo tagliato ogni canale. E con la comunità internazionale ci siamo presentati come un satellite senza orbita.
Il problema non è che Meloni oggi chieda un cessate il fuoco. Il problema è che ci è arrivata solo ora, a genocidio ampiamente consumato, a reputazione nazionale compromessa, a rischio di attacchi in casa.
Il problema è che non è una posizione, ma una reazione. Non un piano, ma un riflesso.
E allora, sia chiaro: non si tratta di pacifismo né di pietismo. Si tratta di strategia, che è una cosa molto più seria della retorica. Si tratta di capire che in Medio Oriente non esiste neutralità senza autorevolezza, né alleanza senza coerenza.
E Meloni, finora, non ha né l’una né l’altra. E quando oggi dice che è tempo di riallacciare i rapporti con l’Iran, suona come chi chiede scusa al cameriere dopo avergli rovesciato il vino addosso per mesi. Non è diplomazia, è panico.
L’Italia oggi sta perdendo molto più di qualche punto nei sondaggi internazionali:
Sta perdendo ruolo. Non siamo più interlocutori credibili nel Mediterraneo. Le potenze regionali ci guardano con compatimento, come si guarda un vecchio zio che si crede ancora importante ma non ha nemmeno più le chiavi di casa.
Sta perdendo sicurezza. Non perché “ci odiano”, ma perché ci vedono come pedine in una scacchiera che non controlliamo. E le pedine, si sa, si sacrificano per salvare il re. Ma noi non siamo nemmeno quello.
Sta perdendo valori. E qui non si parla di idealismo. Si parla di identità. Di dignità. Di avere almeno il coraggio di dire: “Questo no”. Anche quando è scomodo. Anche quando rischia di costare qualcosa.
Sta perdendo tempo. E in diplomazia, il tempo è tutto. Arrivare tardi significa contare meno. E Meloni, fino a oggi, è sempre arrivata dopo: dopo i massacri, dopo le critiche internazionali, dopo che la storia aveva già girato pagina.
Forse è giusto essere cinici, oggi. Forse è l’unico modo per dire le cose come stanno.
Non c’è alcun risveglio morale nel governo italiano: c’è una sveglia geopolitica che ha iniziato a suonare troppo forte per essere ignorata.
Non c’è empatia, c’è paura.
Non c’è strategia, c’è improvvisazione.
E il problema è che – se non cambia rotta – l’Italia rischia non solo di non contare più niente, ma anche di pagare il prezzo di scelte fatte da altri, in silenzio, mentre ci raccontavamo che stavamo “dalla parte giusta della storia”.
La storia però non ha una parte. Ha un giudizio. E arriva, sempre, puntuale.