“Il genocidio non è un atto, è un processo. E quello che sta avvenendo in Palestina lo dimostra in modo spietato.”
— Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i territori palestinesi occupati
È una voce limpida, autorevole e sempre più scomoda quella di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, giurista e autrice del libro “Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina” (Rizzoli). In una lunga intervista rilasciata a Our Voice, Francesca affronta senza filtri il cuore della tragedia palestinese, parlando apertamente di genocidio, apartheid, colonialismo di insediamento e complicità internazionale.
Secondo Albanese, ciò che accade nei territori palestinesi occupati — e in particolare a Gaza — risponde pienamente ai criteri del genocidio così come definiti dall’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948.
Art. II
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti,
commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
“La distruzione intenzionale di un gruppo in quanto tale: questo è genocidio. Non si può più fingere che sia altro.”
E accusa apertamente Israele di aver pianificato e messo in atto pratiche di annientamento sistematico, che vanno ben oltre i crimini di guerra o contro l’umanità. “Gli atti sono lì, le prove grondano ovunque. Chiunque neghi oggi il genocidio, è complice nella sua perpetuazione”, afferma.
Il regime di apartheid non è un concetto nuovo per i palestinesi, ma oggi assume forme più sofisticate, digitali, pervasive. Francesca parla di “Apartheid 4.0”, un sistema tecnologico di sorveglianza, controllo e discriminazione razziale che si somma all’oppressione militare e giuridica.
“Dal 1967 Israele impone leggi militari scritte e applicate da soldati. Anche ai bambini. Questo è apartheid strutturale.”
Un sistema pensato per soffocare, isolare, atomizzare una popolazione ridotta ormai a “massa punibile”, dove anche i bambini sono percepiti come potenziali nemici da eliminare.
Un punto centrale dell’intervista riguarda la narrativa dominante, spesso dettata da governi, media mainstream e lobby internazionali. Francesca denuncia la distorsione sistematica dei fatti da parte dell’ideologia sionista e afferma:
“L’ideologia che mira a uno Stato per soli ebrei è in sé discriminatoria. Incompatibile con l’ordine internazionale fondato sul diritto.”
E accusa le istituzioni occidentali di ipocrisia: “Si fermano a condannare attacchi in Cisgiordania senza vedere il quadro d’insieme: l’annientamento sistematico di un popolo, la Palestina fatta a pezzi.”
Nonostante il silenzio dei governi, Francesca Albanese trova speranza nei movimenti giovanili che in tutto il mondo manifestano per la Palestina, per i diritti negati, per la giustizia sociale e climatica.
“È tempo di rivoluzione, diceva Battiato. Oggi lo dico anch’io. La differenza la faranno i giovani, quelli che non controllano capitali o algoritmi, ma che hanno ancora coscienza.”
E ricorda il movimento no-global, la repressione di Genova 2001, la lunga marcia dei diritti civili, delle lotte femministe e LGBTQIA+. “I diritti non sono un dono, ma il frutto di battaglie. Nessuno è acquisito per sempre.”
Le sue parole, i suoi report, le sue denunce hanno attirato attacchi feroci da parte di governi, senatori USA, gruppi di pressione. Hanno tentato — e tentano — di farla rimuovere dal suo incarico. Ma Francesca non si lascia intimidire:
“Ho paura, sì. Ma non per me. Ho paura del sistema. Di governi che negano i crimini per trarne profitto. Queste sono logiche mafiose.”
E afferma con forza che la sua missione non si ferma, nemmeno dopo la fine del mandato all’ONU:
“La Palestina è parte della mia vita ormai. Continuerò a lottare per la giustizia, per l’umanità. Anche da semplice cittadina.”
Le parole di Francesca Albanese non sono solo una denuncia: sono un atto politico, una chiamata alla responsabilità collettiva. Oggi più che mai, nel silenzio assordante delle istituzioni, la verità passa per le voci libere, indipendenti, coraggiose.
“Rompere gli argini, bucare l’amnesia coloniale, ridare dignità alla giustizia: è questo il compito che ci attende. Nessuno può più voltarsi dall’altra parte.”
Parole forti, necessarie. Parole che fanno tremare i palazzi. Ma che accendono le piazze.
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