Negli Stati Uniti va in scena l’ennesimo scontro tra titani, ma stavolta non si tratta di film Marvel, bensì di qualcosa di molto più esplosivo: Donald Trump — più indemoniato che mai — ed Elon Musk, il signore dei razzi, delle auto elettriche e dei tweet scritti alle tre di notte.
Lo scontro non è più tra destra e sinistra. È tra potere ed iper-potere.
Il casus belli? Proprio quel bilancio federale, una manovra da trilioni di dollari che Musk ha bollato come “demente” e “insostenibile”, accusando Washington di drogare l’economia con spesa pubblica senza visione. Trump ha risposto a modo suo: attaccando Musk pubblicamente, definendolo “fuori controllo” e accusandolo di fare il gioco dei democratici.
Ma lo scontro va ben oltre la legge finanziaria. È una questione di controllo. Controllo del potere, della narrazione pubblica, della tecnologia, e persino dell’idea stessa di democrazia.
Trump e Musk sono due facce opposte dello stesso paradosso americano: l’illusione che la democrazia possa essere salvata — o distrutta — da una singola persona dotata di sufficiente carisma, ricchezza o seguito online. Il primo vuole restaurare un’America immaginata, forte e nazionalista; il secondo sogna una nazione ottimizzata, algoritmica, razionale, senza mediazioni.
Entrambi sembrano convinti che il problema della politica sia la politica stessa. Che la democrazia vada “semplificata”, “corretta”, “digitalizzata”. Ma ciò che sfugge loro — o che fingono di ignorare — è che il potere non può essere riscritto come una riga di codice né incapsulato in uno slogan da campagna elettorale. E, soprattutto, non può essere concentrato in mani così pericolosamente simili nella struttura dell’ego.
L’“America Party” lanciato da Musk non è un partito: è un monologo travestito da progetto collettivo. È la reazione di un miliardario insofferente alle regole del gioco, che quando non vince pretende di riscrivere il tabellone. Un’operazione che sfrutta il vuoto della politica istituzionale ma che non offre alcuna vera proposta. Solo indignazione, algoritmi e fede cieca nella tecnocrazia.
Trump, dal canto suo, non ha alcuna intenzione di cedere la scena. Il suo bilancio non è solo una manovra economica: è un manifesto ideologico, una dichiarazione di guerra a ciò che resta dell’establishment democratico e un tentativo di blindare il consenso con spesa pubblica selettiva e misure fortemente identitarie.
La vera minaccia non è lo scontro in sé. È il messaggio che trasmette: che la politica può essere governata da soli, senza corpi intermedi, senza compromessi, senza cittadini. Che il consenso sia una questione di follower, non di visione. Che basti un nome noto e un capitale illimitato per dare lezioni su tutto: dal debito pubblico al futuro dell’umanità.
In questa guerra tra personalismi, la democrazia viene trattata come un ostacolo, non come un valore. I meccanismi di bilanciamento, la lentezza del dibattito parlamentare, i vincoli costituzionali — tutto viene descritto come zavorra. Ma è proprio quella “zavorra” a impedirci di precipitare nel culto della personalità o nella dittatura delle piattaforme.
Il sogno tecnocratico di Musk ha lo stesso difetto di ogni utopia individualista: crede di essere superiore alla realtà. Ma la realtà è fatta di complessità, disuguaglianze, tensioni sociali che non si risolvono con un update software. Il potere pubblico non può essere affidato né a chi tratta la Costituzione come una seccatura, né a chi la ignora perché troppo impegnato a immaginare la colonizzazione di Marte.
Il sistema democratico — con tutti i suoi limiti — si fonda su una regola semplice: nessuno basta a sé stesso. Non il presidente degli Stati Uniti. E nemmeno il proprietario della rete dove milioni di cittadini discutono ogni giorno.
Trump e Musk stanno giocando una partita personale sulla pelle della collettività. E il rischio non è solo che si dividano l’elettorato conservatore. È che svuotino ulteriormente la fiducia dei cittadini nella democrazia, trasformandola in un’arena per duelli tra egocentrismi miliardari.
E quando la politica diventa proprietà privata, il problema non è più chi vince. È chi resta escluso dalla partita.
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