L’Italia è il paese della memoria dei pesci rossi e delle retoriche interessate, delle belle parole per ogni occasione e delle cerimonie di pavoni e pavoncini. Un marziano che scendesse sull’Italia e vedesse tutte le cerimonie e i proclami penserebbe di essere sbarcato in un paradiso, che la vecchia utopia rivoluzionaria che un giorno tutti gli uomini saranno di buon cuore e non ci sarà più bisogno di leggi sia realizzata.
La realtà reale, la verità vera, hanno la testa dura e alla fine emergono sempre. Si possono nascondere dietro cappe di propagande, frasi trite e ritrite, ma là restano e gridano. Il Paese degli eroi, questa bella parola con cui ci si gasa a chiacchiere e poi si rimane inerti (sono eroi, io sono medioman, k puzz fa?), e della Costituzione più bella del mondo, di quella Carta Costituzionale dai principi così importanti che tutti l’amiamo. A chiacchiere. Poi la realtà ci sbatte sul muso nella sua efferata violenza e ogni velo del tempio viene squarciato.
Oltre settant’anni fa i padri e le madri costituenti sancirono una rotta ben precisa per il rispetto della legalità e del patto sociale. Quel patto da sempre stiracchiato e strumentalizzato a seconda delle scuderie del momento. In mezzo, schiacciati, sempre e soltanto coloro che non hanno santi in paradiso, grandi organi di stampa benevoli e asserviti e pregiudizi e luoghi comuni à la carte. I reietti, gli emarginati, i senza voce, esistono anche nel XXI secolo. Coloro che la brava borghesia butterebbe al rogo se potesse. Per poi inginocchiarsi se compaiono colletti bianchi, ventiquattrore, paccate di potere e soldi.
La salute, la dignità, la vita, dovrebbero essere diritti umani fondamentali, diritti universali, garantiti a tutte e tutti. Ma la realtà, drammaticamente e ingiustamente, non corrisponde mai ai proclami e alle dichiarazioni di principio. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» proclama l’articolo 27 di quella Costituzione amata, difesa, sacralizzata da tanti, la “costituzione più bella al mondo” e con un numero di defensor fidei che non basterebbe il Maracanà a contenerli tutti, soprattutto tra coloro che dovrebbero avere come stella polare il “bene comune”. La quotidianità nelle carceri italiane testimonia, brutalmente, l’abisso tra quel che declamano costoro e la realtà reale, la vera verità sulla carne viva di persone a cui è negato ogni diritto, ogni dignità, la vita stessa.
Eros Priore nella Casa Lavoro di Vasto, di cui abbiamo raccontato la morte nel maggio di due anni fa e a cui nessuno a Vasto e dintorni ha dedicato attenzione, Zio N., malato grave morto nel carcere di Chieti, la cui tragica agonia abbiamo raccontato nel maggio 2023, e l’elenco è ogni anno più sterminato.
La morte è «una componente di cui sono permeate le pareti delle celle» tra «l’odore ferroso del sangue che cola, gli occhi sbarrati di chi ha trovato la scorciatoia per la libertà inalando il gas della bomboletta o stringendosi al collo un nodo scorsoio» ha testimoniato Claudio Bottan (ex detenuto, attivista e redattore di Voci di Dentro) l’11 agosto dell’anno scorso su Il Dubbio. «Immagini che continuano a popolare i miei incubi notturni» tra «autolesionismo, suicidi tentati e – troppo spesso – riusciti» e «diventano routine, soprattutto d’estate quando le poche attività che si svolgono in carcere sono sospese e ad abbondare rimane solo il tempo» prosegue nel suo racconto da quelli che appaiono gironi infernali, «un tempo vuoto in cui si affollano i pensieri e sale la tensione per il caldo e per le mancate risposte».
Tempi che con la solitudine possono diventare un «mix esplosivo», ancora di più per chi vive il dramma della malattia. Era la situazione di Italo Calvi che era malato di un «tumore devastante» che ha ceduto, ponendo fine alla sua vita terrena, è stato «trovato appeso con un lenzuolo alle sbarre».
Annus Horribilis nelle carceri italiane è stato definito il 2024 da Voci Di Dentro che ha testimoniato quanto accaduto in Abruzzo e in tutto il Paese in un comunicato che riportiamo integralmente.
Dopo i 69 suicidi avvenuti nel 2023, e gli 86 nel 2022, questo 2024 sta per chiudersi con una orribile cifra record: sono 88 i morti suicidi nelle carceri italiane; dieci anni fa erano 43, la metà, e con lo stesso numero di detenuti. Di questi 88, tre sono stati trovati impiccati nelle loro celle nel carcere di Teramo. Tra questi Patrick, che si è impiccato il 13 marzo a vent’anni al terzo giorno dall’arresto. Meno di vent’anni avevano altre sette morti suicidi nelle altre carceri italiane. Cinque di loro sono morti in cella di isolamento. Ma a tutti questi 88 vanno aggiunti i tanti indicati con la formula tipo: cause da accertare e altre cause. Nel totale quest’anno nei 200 istituti di pena sparsi in Italia le persone morte sono 243. Numeri segno di una istituzione fallimentare dove la fuga è l’unica soluzione: tremila sono stati i tentati suicidi, oltre diecimila gli atti di autolesionismo (tagli sul corpo, ingerimento di lamette, batterie…).
Numeri terribili, impossibile per noi di Voci di dentro parlare di suicidi perché è una parola sbagliata (adatta solo ai titoli di giornale) soprattutto perché nasconde la responsabilità etica della società e perché solleva dalla responsabilità uno Stato che permette e ignora tutto questo. E nasconde il contesto, quello del carcere: un luogo dove le condizioni di detenzione sono sempre più degradanti, difficili da sopportare soprattutto per le persone che in carcere non ci dovrebbero stare: malati, persone con patologie psichiatriche e dipendenze, persone che andrebbero curate in luoghi idonei e non gettate all’inferno. Un luogo dove il sovraffollamento o meglio l‘accatastamento di corpi in spazi chiusi e malsani supera ogni immaginazione, mediamente oltre il 130 per cento.
Voci di dentro conosce bene il contesto abruzzese, soprattutto Chieti, Pescara e Lanciano dove abbiamo conoscenza diretta e frequentazioni costanti da sedici anni. E dove tocchiamo personalmente con mano la realtà. In sintesi: nel carcere di Chieti i posti letto “regolamentari” sono 79, ma i detenuti sono 135; a Pescara di fronte di 276 posti i detenuti sono 462; a Teramo dove i posti sono 255 le persone ristrette sono 390; a Sulmona invece che 323 come da pianta organica i detenuti sono 448; a Lanciano invece che 223 sono 257; a Avezzano invece che 53 i detenuti sono 75. E così per sopperire alla mancanza di posti letto se ne continuano ad aggiungere tanti altri “posti letto di fortuna”: materassini per terra senza branda, aggiunta di terze brande fin sotto il soffitto, materassini nelle stanze barberia come a Pescara o nelle sale colloqui avvocati peraltro senza gabinetto. Ammucchiati di notte e ammucchiati di giorno, anziani e dipendenti da sostanze, malati e fragili, tutti insieme in stanze per 4 che diventano per 6, stanze da sei che diventano da 12: all’ora del pranzo o della cena devono fare i turni perché nelle celle mancano sgabelli a sufficienza… E potremmo continuare.
Ma per noi basta per dire: è in questo contesto, fatto anche di mancanze di opportunità, di scuola e lavoro (a Pescara è chiusa da mesi la calzoleria) e di sospensione di progetti come il laboratorio teatrale e “la città”, che nascono tensioni e nuove sofferenze.
Davvero 2024, Annus horribilis. Eppure per noi c’è una certezza: cambiare si può, anzi si deve. E Voci di dentro non smetterà di lavorare perché non ci siano più anni orribili.