Il Decreto Sicurezza, firmato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 aprile 2025, è legge. E con la sua entrata in vigore si apre un nuovo capitolo — non privo di ombre — nella gestione dell’ordine pubblico in Italia. Non è solo una questione giuridica o politica. È una questione culturale, democratica, morale. Perché quando la sicurezza diventa un’ossessione, la libertà rischia di diventare un effetto collaterale.
Nel testo del decreto si leggono 14 nuove fattispecie di reato, 9 circostanze aggravanti, il passaggio del “blocco stradale” da illecito amministrativo a reato penale, l’inasprimento delle pene per imbrattamenti, l’estensione dei DASPO urbani, l’aumento del sostegno legale agli agenti, e soprattutto — una delle misure più controverse — l’immunità quasi totale per gli 007 infiltrati anche in organizzazioni criminali. Una serie di provvedimenti che, pur mascherati da pragmatismo securitario, sembrano pensati più per punire che per prevenire, più per intimidire che per educare.
Il contesto in cui questo decreto prende forma non è neutro. Negli ultimi mesi l’Italia ha assistito a immagini difficili da dimenticare: studenti minorenni colpiti dai manganelli a Pisa e Firenze, attivisti climatici caricati con forza, simboli del Ventennio sulle divise della polizia penitenziaria durante raduni ufficiali. Episodi che non sono più eccezioni, ma sintomi. Di una tensione crescente tra istituzioni e cittadini, tra lo Stato e la sua società civile.
Non è un caso che il decreto arrivi in un momento in cui le piazze tornano a riempirsi: per l’ambiente, per la Palestina, per la scuola, contro il caro-affitti, contro la povertà. La risposta? Invece di ascoltare, si reprime. Invece di aprire un dialogo, si alza il tono della minaccia penale.
Il diritto di manifestare — tutelato dall’articolo 17 della Costituzione — rischia di essere svuotato dal suo contenuto se ogni gesto simbolico, ogni sit-in, ogni protesta pacifica viene sanzionato con pene sproporzionate. Occupare simbolicamente uno spazio o bloccare una strada in segno di protesta diventa un crimine. Imbrattare una parete per denunciare un’ingiustizia può costare la galera. In nome della legalità si rischia di tradire il senso stesso della democrazia.
Perché una democrazia non è tale solo quando mantiene l’ordine, ma quando sa tollerare anche l’inquietudine, la contestazione, il conflitto sociale. Quando sa distinguere tra chi protesta e chi delinque.
Non si può nemmeno ignorare l’ambiguità insita nel rapporto tra cittadini e forze dell’ordine. Da un lato si chiede professionalità, trasparenza, rispetto delle regole. Dall’altro, si approva un decreto che prevede un rimborso fino a 10.000 euro per gli agenti coinvolti in procedimenti giudiziari, quasi come se l’abuso di potere fosse un rischio inevitabile del mestiere. In un Paese in cui le forze dell’ordine spesso operano in condizioni difficili, con carenze strutturali e umane, il sostegno dello Stato è necessario. Ma il sostegno non può diventare impunità.
Ancor più delicata è la norma che conferisce agli agenti dei servizi segreti l’immunità anche per reati gravi, qualora compiuti durante missioni di infiltrazione. Un confine pericoloso tra legalità e arbitrio, che solleva interrogativi profondi sul principio di uguaglianza di fronte alla legge (art. 3 Cost.) e sul controllo democratico dell’azione statale.
La retorica della sicurezza totale è potente. Ma è un’illusione. Più si promette sicurezza assoluta, più si generano ansie collettive. E a pagarne il prezzo sono spesso i più fragili: migranti, senzatetto, studenti, lavoratori precari. Le norme del decreto colpiscono in particolare chi è già ai margini, chi ha meno voce, chi è più esposto al ricatto sociale.
La sicurezza non è solo ordine pubblico. È casa, lavoro, salute, istruzione. È sapere che lo Stato non ti colpirà se alzi la voce, ma ti ascolterà. È poter manifestare senza temere di finire con una costola rotta. È fiducia, non terrore.
Siamo in un’epoca in cui l’autorità si sta riappropriando di spazi che la democrazia aveva aperto. Il rischio non è il caos, ma l’assuefazione all’ordine come unico valore. Un ordine che non tollera disobbedienza, che penalizza l’imprevisto, che trasforma il cittadino in sorvegliato.
La Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, non è solo un insieme di norme: è una visione della convivenza. Quel patto oggi è sotto pressione. E ogni volta che si introduce un reato che criminalizza il dissenso, ogni volta che si legittima l’uso sproporzionato della forza, quel patto si incrina.
La domanda, in fondo, è tutta qui. Il Decreto Sicurezza non è solo una legge. È una cartina di tornasole del tempo che viviamo. Un tempo in cui lo Stato sembra più preoccupato di controllare i suoi cittadini che di servirli. In cui la legalità diventa un feticcio e la giustizia un dettaglio.
Non possiamo permetterci il lusso dell’indifferenza. Perché la storia ci ha già insegnato cosa accade quando il diritto diventa uno strumento di paura, e non di libertà. Oggi più che mai, non basta essere dalla parte della legge. Bisogna chiedersi se la legge è dalla parte della Costituzione.
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