C’è qualcosa di profondamente simbolico nel fatto che, a quasi cinquant’anni dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, milioni di pagine processuali legate a quel caso siano oggi disponibili online, consultabili da chiunque. Non solo carte, fascicoli, interrogatori e memoriali: sono frammenti vivi di una vicenda che non ha mai smesso di parlarci. E che, anzi, oggi forse ci parla ancora più forte, mentre la nebbia della memoria collettiva rischia di offuscare i contorni di ciò che è stato.
Un chilometro lineare di documenti, digitalizzati e riversati nella nostra contemporaneità, non è soltanto un gesto archivistico: è un atto politico, culturale, quasi morale. È un invito a guardare indietro per capire dove siamo andati a sbattere. È uno specchio che riflette lo smarrimento di un Paese che, a tratti, sembra voler dimenticare proprio ciò che dovrebbe custodire.
Perché tornare, ancora una volta, su Aldo Moro?
Perché la sua morte, e ancor di più il suo abbandono, hanno rappresentato una cesura nella storia della Repubblica. Perché in lui si incarnava la possibilità – rivoluzionaria per l’epoca – di un compromesso alto tra due mondi antagonisti: la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista. Un dialogo tra forze diverse, che avrebbe potuto traghettare l’Italia fuori dalla guerra fredda interna che lacerava il tessuto democratico.
Moro era l’uomo del dubbio, dell’equilibrio, della trattativa. E per questo scomodo. Non solo per le Brigate Rosse, che lo consideravano il cuore del sistema da colpire. Ma forse anche per altri settori del potere, visibili e invisibili, che non vedevano di buon occhio un cambiamento troppo profondo degli equilibri istituzionali e geopolitici.
Il suo sequestro non è stato solo un atto di terrorismo. È stato un trauma nazionale. La sua uccisione, dopo 55 giorni di prigionia, è una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. E che oggi, rileggendo le sue lettere e i verbali dei processi, sembra ancora gridare: “Non lasciatemi solo”.
La verità giudiziaria sul caso Moro esiste, certo. Ma non è mai riuscita a sedare il sospetto che attorno a quella vicenda si sia consumato qualcosa di più grande. Qualcosa che ha a che fare con i confini mobili tra Stato e potere, tra sicurezza e complicità, tra giustizia e ragion di Stato.
Ci sono troppe zone d’ombra, troppi buchi neri, troppi silenzi. Troppe domande a cui nessuno ha mai voluto davvero rispondere.
Perché non si è trattato fino in fondo? Chi ha ostacolato una possibile mediazione? Chi ha deciso che Moro dovesse morire?
Chi ha letto – e ignorato – le sue lettere disperate dalla prigione del popolo?
La sensazione è che ci sia stato un patto tacito, una linea invalicabile oltre la quale nessuno ha voluto guardare. Per non scoperchiare verità troppo scomode. Per non rimettere in discussione il mito della stabilità, anche a costo di un sacrificio.
E poi c’è la questione più spigolosa: quella del rapporto tra Stato e criminalità organizzata. Perché mentre Moro moriva, la mafia non stava a guardare. Stava crescendo, si stava radicando, stava stringendo mani e facendo affari.
E quando si parla di convergenze tra pezzi deviati dello Stato e poteri criminali, il caso Moro resta un terreno delicato, pieno di indizi e piste mai del tutto chiarite.
Per decenni si è finto che le mafie fossero un problema “locale”, confinato al Sud, al massimo alla cronaca nera. Oggi sappiamo che non è mai stato così. La mafia, come il terrorismo, si è sempre nutrita di ambiguità. E nei momenti di crisi dello Stato, ha trovato spazio.
Oggi più che mai, la parola “mafia” continua a fare paura. Non solo per la violenza che porta con sé, ma perché evoca complicità, collusioni, zone grigie. E ogni volta che la si pronuncia accanto alla parola “Stato”, si rischia il cortocircuito.
La digitalizzazione degli atti del caso Moro è un gesto di democrazia, ma non basta. Perché l’archivio digitale è una possibilità, non una garanzia. Serve la volontà di leggere, di capire, di rimettere in discussione le versioni ufficiali. Serve, soprattutto, il coraggio di insegnare questa storia.
Di non trattarla come un caso chiuso, ma come una ferita aperta che può insegnare molto anche a chi non l’ha vissuta.
Dovremmo portare il caso Moro in più scuole possibili. Non solo come fatto storico ma come lezione civica. Raccontare ai ragazzi non solo chi era Moro ma cosa rappresentava. Spiegare cosa significa “sacrificio di Stato”, perché le istituzioni a volte tradiscono, perché la verità può diventare scomoda.
Solo così, forse, restituiremo senso a quella memoria che oggi rischia di diventare un esercizio sterile, da commemorazione istituzionale.
Aldo Moro diceva: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
Ed è proprio questo il punto: oggi abbiamo più strumenti per conoscere, ma manca spesso la volontà politica di farlo davvero. La verità – quella piena, non parziale – è un atto rivoluzionario. Perché cambia le narrazioni, smaschera i compromessi, costringe ad assumersi responsabilità.
E in un Paese che ha sempre avuto una certa allergia per le verità troppo nette, il caso Moro resta una bomba a orologeria inesplosa.
Tocca a noi decidere se vogliamo disinnescarla o continuare a ignorarne il ticchettio.