C’è qualcosa di mistico nella capacità di certi politici di giocare a nascondino con la democrazia, come se fosse un passatempo per menti annoiate. E Giorgia Meloni, con la grazia di una regina in visita al popolo ma senza la voglia di sporcarsi le scarpe nel fango della partecipazione civile, ha detto la sua: non ha alcuna intenzione di ritirare la scheda.
Abbiamo capito bene? La Presidente del Consiglio, paladina del “popolo sovrano”, campionessa di retorica elettorale, madrina della fiamma tricolore, ci fa sapere che il suo cuore batte per l’astensione. Attiva, eh. Non quella degli ignavi. Un’astensione col tacco 12 e il rossetto patriottico. Quella raffinata, legale, strategica. Siamo nel pieno del teatro democratico e lei, la regista, ci annuncia che preferisce guardare lo spettacolo da dietro le quinte. Applausi. O fischi, fate voi.
Ma che cos’è questa cosa che chiama “astensione attiva”? In parole povere: un modo elegante per dire boicottaggio. Sì, perché quando una Premier, durante una consultazione referendaria, invece di promuovere la partecipazione si mette a disegnare arabeschi giuridici per giustificare la sua assenza, non sta esercitando un diritto: sta giocando con il fuoco costituzionale. Sta suggerendo che partecipare è per ingenui, che andare alle urne è da perdenti, che esprimere un’opinione, in fondo, è un vezzo da idealisti fuori moda.
Il governo, in queste settimane, ha fatto tutto il possibile per evitare che il referendum si trasformasse in un evento politico. Non una campagna informativa decente, non un dibattito pubblico acceso, non un tentativo di coinvolgere davvero i cittadini. Sembrava quasi si sperasse che passasse sotto silenzio, come un post sui social troppo lungo da leggere. E invece eccolo lì, vivo, importante, pieno di implicazioni reali. Perché questo referendum non è solo una casella da barrare: è un termometro dello stato della nostra democrazia. E quando il termometro segna gelo, c’è poco da ridere.
Il paradosso è servito: un governo che si definisce sovranista, populista, “del popolo”, che però invita implicitamente a non votare. Un’astensione che non sa di libertà ma di sabotaggio. Un disinteresse travestito da fine strategia. È come se il capotreno ti dicesse: “Guarda, salire è tuo diritto. Ma io sto sul marciapiede, per sicurezza. Sai com’è”.
Eppure, è proprio grazie al voto che oggi esiste la Costituzione. È proprio perché uomini e donne hanno scelto di partecipare, e non di astenersi, che oggi possiamo persino permetterci il lusso di votare (o non votare). Non è un dettaglio: è la base di tutto. Il voto non è un optional, non è un accessorio della domenica. È la cinghia di trasmissione tra noi e le istituzioni. Se si rompe, se si inceppa, se lo boicottiamo, poi non lamentiamoci se nessuno ci ascolta. Il silenzio delle urne è la musica preferita del potere sordo.
E allora no, cara Presidente. Il voto non è una scelta secondaria. Non è qualcosa da “evitare con eleganza”. È un dovere civile, è uno strumento di lotta, è un diritto che va esercitato, non elegantemente snobbato. Perché se chi governa si permette il lusso di dire “non ritiro la scheda”, cosa pensiamo possa fare un cittadino qualunque? Lo invitiamo al bar, a guardare la democrazia passare in televisione?
Chi ha memoria – e anche un minimo di dignità – dovrebbe capire che ogni volta che si tenta di ridicolizzare il voto, ogni volta che si suggerisce che astenersi sia più “cool” che partecipare, si sta scrivendo un piccolo necrologio alla nostra Repubblica.
E allora, noi il referendum non lo dimentichiamo. Non lo boicottiamo. Non lo snobbiamo. Perché siamo convinti che la partecipazione sia l’unica vera forma di libertà. E perché sappiamo che la Costituzione non è nata per essere interpretata con cinismo, ma per essere vissuta con coraggio.
Alla fine, quando il sipario calerà, non conterà chi ha fatto il post più furbo o la dichiarazione più ambigua. Conterà chi ha avuto il coraggio di esserci.
E noi, con una matita in mano, ci saremo.
Immagine IA