C’è un limite oltre il quale il silenzio istituzionale non è più prudenza ma complicità. E nel caso che ha coinvolto Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, e la società israeliana Paragon, quel limite sembra essere stato non solo superato, ma ignorato. Mentre il governo si trincera dietro formule di rito e il Copasir chiude in fretta la pratica, una domanda si fa largo, ostinata e necessaria: chi ha davvero paura della verità?
Francesco Cancellato ha ricevuto una comunicazione inquietante: secondo le rilevazioni di Meta, il suo telefono avrebbe subito un tentativo di intrusione tramite Graphite, uno spyware altamente sofisticato, prodotto da Paragon, in grado di infiltrarsi anche nei dispositivi più protetti, trasformandoli in microfoni viventi.
In uno Stato di diritto, la notizia avrebbe dovuto generare allarme istituzionale, trasparenza, chiarimenti immediati. E invece no. Il Copasir — Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica — si è affrettato a dichiarare che non risulta che Cancellato sia stato spiato da un’agenzia di intelligence italiana. Bene, ma non basta. Perché il punto non è solo chi abbia utilizzato lo spyware, ma perché non si sia fatto nulla per approfondire la vicenda in modo serio e pubblico.
Poi è arrivata la mossa imprevista. Paragon ha rescisso il contratto con l’Italia, accusando, di fatto, il governo italiano di non voler fare chiarezza. In una nota dai toni taglienti, l’azienda israeliana ha dichiarato di aver offerto piena collaborazione per verificare se il loro prodotto fosse stato utilizzato contro il direttore di Fanpage, ma di non aver ricevuto alcuna risposta.
In altre parole: l’Italia ha avuto l’opportunità tecnica di accertare i fatti ma ha scelto di non indagare. Un silenzio che diventa una macchia indelebile, perché lascia intendere una volontà di insabbiare. Di “non sapere per non dover rispondere”.
A questo punto, la posizione del Copasir — che avrebbe il compito di vigilare sull’operato dei servizi — non solo appare insufficiente ma addirittura controproducente. Se davvero nulla è successo, perché non permettere una verifica oggettiva, trasparente, tecnologica? Se davvero Cancellato non è stato spiato, perché ignorare l’offerta di chi avrebbe potuto dimostrarlo?
In una democrazia, non è accettabile che un organo di controllo parli per chiudere il caso, non per aprirlo alla verità. La questione non riguarda solo un giornalista, ma tutti i cittadini. Perché se oggi lo Stato può evitare di spiegare come e perché un giornalista critico è finito nel mirino, domani chiunque potrà esserlo. E nessuno dovrà più rispondere.
Il caso di Francesco Cancellato, pur nel suo silenzio istituzionale, si inserisce in un contesto più ampio e inquietante. È il sintomo di una deriva opaca, dove il confine tra sicurezza e sorveglianza si fa sempre più sfumato. Dove strumenti pensati per combattere il terrorismo finiscono per essere usati — o anche solo sospettati di esserlo — contro giornalisti, attivisti, cittadini comuni.
La libertà di stampa non è un principio astratto. È il diritto di raccontare la realtà senza paura, senza microfoni nascosti nei telefoni, senza occhi digitali nei taccuini. È la garanzia che chi controlla il potere possa essere controllato a sua volta. E quando lo Stato rifiuta di indagare sulla possibilità che proprio quella libertà sia stata violata, quel diritto si incrina per tutti.
C’è un solo modo per chiudere davvero il caso Cancellato: aprirlo. Rendersi disponibili a indagare, tecnicamente e politicamente, su chi ha usato lo spyware, con quali autorizzazioni, e con quali fini. Tutto il resto — i comunicati vaghi, le dichiarazioni prudenti, le rescissioni postume — sono toppe peggiori del buco.
Il problema, oggi, non è solo chi ha spiato. Ma chi ha permesso che si potesse farlo senza controllo. E chi, di fronte alla possibilità di accertare i fatti, ha scelto il silenzio.
La libertà non si misura solo in ciò che si può dire, ma in quanto lo si può dire senza temere che qualcuno stia ascoltando di nascosto. Il caso Cancellato non riguarda un giornalista: riguarda il diritto di tutti noi a non essere trattati come bersagli potenziali solo per aver fatto domande scomode.
La rescissione del contratto con Paragon è un fatto. Ma non è un chiarimento. È un epilogo solo per chi ha fretta di chiudere. E in politica, la fretta di archiviare è spesso la maschera della colpa.
L’Italia, se vuole restare una democrazia credibile, non può permettersi di mentire ai suoi cittadini. Nemmeno per omissione. Nemmeno per calcolo.