ROMA – In un’aula di Tribunale non si giudica solo un uomo ma un’epoca intera. Un’epoca in cui la parola è diventata campo di battaglia, e il dissenso oggetto di denuncia. È lì che ieri si sono ritrovati Matteo Salvini e Roberto Saviano. Il primo, ministro, politico da sempre esperto nell’arte del colpo di scena; il secondo, scrittore e intellettuale, maestro nel trasformare le parole in bandiere. Uno chiede giustizia per un’offesa. L’altro rivendica il diritto alla critica.
Nel mezzo, il Paese. Che guarda e si divide, perché in Italia siamo specializzati in tifoserie morali.
Tutto nasce da una frase di Saviano, risalente al 2018, in cui definì Salvini “ministro della Mala Vita”. Una provocazione? Un insulto? Una citazione? Forse tutto questo insieme. Certo non una carezza, ma nemmeno un caso isolato nel panorama politico-mediatico. La politica, del resto, da anni non è più cosa “pulita” — e su questo possiamo smetterla di prenderci in giro. Ha smesso di essere un luogo di trasparenza. E non è la “mala vita” ad infiltrarsi nella politica: spesso è proprio dentro i palazzi del potere che quella cultura si genera, si protegge, si riproduce. Fingere che il problema sia solo nei toni usati da chi critica, e non nei comportamenti di chi esercita il potere, è un’ipocrisia che offende prima di tutto l’intelligenza dei cittadini.
Le alleanze mutano con la stessa rapidità dei tweet, i valori si piegano ai sondaggi, e lo sdegno è spesso un vezzo da palcoscenico. Parlare di “onore politico” in questo contesto suona un po’ come voler vendere acqua di colonia nei bassifondi di una guerra civile.
Ma proprio per questo, per quanto brutale, la libertà di espressione non può essere sacrificata sull’altare della suscettibilità istituzionale. La stampa libera, la critica, la satira, la parola che punge: tutto questo è ossigeno in una democrazia sana. È il contrappeso naturale di un potere che, per sua stessa natura, tende a espandersi, a imporsi, a difendersi — anche con i tribunali. Ed è inaccettabile che l’azione giudiziaria diventi un deterrente o una forma di intimidazione nei confronti di chi racconta, denuncia, interpreta, anche con toni duri.
Detto ciò, il problema non è solo giuridico. È culturale. Perché anche Saviano, in questo schema, non è solo il perseguitato, ma anche il prodotto di un meccanismo che si nutre di polarizzazione. Ha scritto libri importanti, ha acceso riflettori su verità scomode, ha pagato un prezzo personale altissimo. Ma ha anche costruito un personaggio, un’identità pubblica fondata sul conflitto costante. E quando la parola si fa mestiere, anche l’indignazione rischia di diventare posa. Quando la denuncia è continua, perde forza. Quando chi dissente non accetta mai di essere contraddetto, il dialogo si trasforma in monologo.
Salvini, dal canto suo, ha cavalcato per anni la retorica del nemico. Il nemico straniero, il nemico giornalista, il nemico intellettuale. Ha costruito consenso attraverso una grammatica del disprezzo, salvo poi chiedere rispetto quando è lui a essere colpito. È il gioco della politica moderna, dove tutti si offendono e nessuno si ascolta. Dove le parole non servono più a convincere, ma a schierare.
Questo processo, allora, non è (solo) su una frase. È sul senso stesso del dibattito pubblico. È un termometro di quanto siamo disposti a tollerare, accettare, comprendere nel confronto tra idee. E se davvero siamo arrivati al punto in cui un’espressione colorita — per quanto controversa — diventa materia penale, allora la domanda è una: che Paese vogliamo essere?
Un Paese dove la politica si scandalizza a comando, e l’informazione cammina sulle uova? O uno in cui la parola resta libera, anche quando disturba?
Non si tratta di assolvere Saviano né di condannare Salvini. Si tratta di capire che la libertà di espressione è una garanzia che vale per tutti: per lo scrittore e per il ministro, per il giornalista e per l’elettore. E che la politica — quella vera — dovrebbe preoccuparsi più delle sue azioni che delle sue caricature.
Alla fine, questo processo resterà nella storia non per il suo verdetto, ma per quello che dice sul nostro tempo. Un tempo in cui la parola può essere una minaccia, la verità un’opinione, e la giustizia — spesso — uno specchio deformante.
Ma se spegniamo le voci scomode, poi non lamentiamoci del silenzio.