Nel cuore di una New York frammentata tra lussuose vetrine e case popolari in rovina, è emersa una figura politica che sta ridisegnando i confini dell’immaginario urbano e nazionale: Zohran Mamdani. Non è solo un giovane deputato dell’Assemblea di Stato, né soltanto un socialista dichiarato in corsa per la carica di sindaco. È l’emblema di una nuova grammatica politica che parla alle periferie fisiche ed esistenziali di una generazione disillusa e che infastidisce profondamente la narrazione dominante incarnata, ancora una volta, dal presidente Donald Trump.
Sì, perché Mamdani – 33 anni, figlio di migranti ugandesi di origini indiane, musulmano, cresciuto nel Queens – è tutto ciò che il trumpismo detesta: un giovane idealista che sfida il neoliberismo, che propone politiche radicali di giustizia sociale, che non chiede il permesso per dire ciò che pensa e che non si piega alla retorica della moderazione. E lo fa non con la rabbia urlata, ma con una comunicazione pop, ironica, coinvolgente. Una narrazione in cui si fondono TikTok e sindacalismo, attivismo e cultura digitale, poetica urbana e lotta di classe.
Mamdani non si limita a fare politica: la reinventa. I suoi slogan sono diventati meme, i suoi comizi sono eventi che attraggono ventenni più di quanto non facciano i concerti. “Hot girls for Zohran”, “Socialismo sexy” e “Rent is theft” non sono semplici provocazioni ma dispositivi culturali che sintetizzano un’urgenza generazionale: quella di vivere in un sistema che non costringa a scegliere tra pagare l’affitto o curarsi, tra il cibo e l’educazione. Non è un caso se la Generazione Z, quella cresciuta tra crisi economica, pandemia, precarietà e cambiamento climatico, si identifichi in massa con la sua figura.
Dietro i meme, però, ci sono proposte politiche molto concrete: trasporti pubblici gratuiti, salario minimo di 30 dollari l’ora, alloggi popolari, supermarket pubblici, accesso universale agli asili nido. In una città in cui il costo medio di un affitto è ormai inaccessibile alla maggior parte dei lavoratori, queste proposte non sono “estrema sinistra”, sono buon senso. Ma è proprio questo buon senso che spaventa i conservatori.
Donald Trump, infatti, non ha tardato a puntare il dito contro Mamdani. Lo ha definito «un pericolo per l’America», ha messo in discussione la sua cittadinanza americana (nonostante Mamdani sia nato a New York), e ha persino suggerito di “espellerlo dal Paese” come fosse un corpo estraneo. Parole pesanti, pronunciate da un presidente in carica, che non si limitano a un attacco politico: sono un segnale ideologico.
Perché Mamdani rappresenta tutto ciò che Trump non può controllare: una mobilitazione giovane, intersezionale, globale. Un’America che non ha paura di chiamarsi socialista, che vuole smantellare il sistema della sorveglianza di massa, che difende i diritti dei migranti, che sfida il capitalismo estrattivo. Un’America che ha capito che il cambiamento non avverrà per concessione, ma per rottura.
La candidatura di Mamdani non è solo una corsa a sindaco. È un esperimento culturale e sociale. È il tentativo di portare nei palazzi del potere newyorkese le voci finora escluse: rider, donne single con figli, studenti indebitati, lavoratori part-time, inquilini sfrattati. In questo senso, Mamdani non è semplicemente “il candidato della sinistra” ma una piattaforma umana e politica in cui si coagulano rabbia, speranza e desiderio di giustizia.
Lo dimostra anche la difficoltà dei Democratici moderati a gestire la sua ascesa. Seppur in minoranza tra i big del partito, Mamdani gode del sostegno crescente della base progressista e delle aree urbane più giovani. Non è un caso che, di fronte alle minacce di Trump, solo pochi esponenti democratici abbiano avuto il coraggio di esprimere una solidarietà piena e convinta. La verità è che Mamdani mette in crisi l’intero sistema politico bipartitico, mostrando che la frattura non è più tra destra e sinistra, ma tra conservazione e trasformazione radicale.
Sicuramente c’è una domanda che attraversa sottotraccia tutta questa vicenda: può una figura come Mamdani guidare una metropoli come New York, tra le più complesse, disuguali e simboliche del mondo? La risposta potrebbe definirla proprio la sua generazione. Perché la sua forza non sta solo nella qualità delle proposte, ma nella visione: quella di una città che non sia solo vetrina del capitalismo globale, ma laboratorio di futuro, esempio di una società più equa e inclusiva.
E qui si gioca la vera battaglia: se Mamdani dovesse vincere – nonostante gli attacchi, le paure e le minacce – il suo esempio rischia di diventare contagioso. Non solo per altre città americane, ma per tutte le metropoli del mondo occidentale alle prese con lo stesso problema: una crescente disuguaglianza e una generazione che non ci sta più a vivere dentro un sistema che non funziona.
Zohran Mamdani è un nome che molti ancora pronunciano con diffidenza, ma che milioni iniziano a scrivere con entusiasmo. È divisivo perché ha una visione netta. Fa paura perché dice la verità. Entusiasma perché restituisce un senso alla politica in un’epoca in cui sembrava svuotata. È, in fondo, il figlio di un’America che Trump vorrebbe cancellare, ma che invece cresce sotto i suoi occhi.
Che piaccia o no, il futuro della politica americana potrebbe somigliare più a Mamdani che a chiunque altro. E se il presente è ancora nelle mani di chi costruisce muri, è evidente che qualcuno ha già iniziato a piantare i semi di un domani molto diverso.