Ogni anno, puntualmente, si ripete il rito. Il palco, le sedie in fila, i manifesti con i volti dei morti ammazzati, i fasci tricolori, l’inno di Mameli, gli applausi. È il grande circo delle commemorazioni delle vittime di mafia. Dove la memoria diventa spettacolo.
Dove si celebra l’eroismo di chi non c’è più, ma si ignora il grido di chi è rimasto vivo e continua a chiedere giustizia.
A parlare sono sempre loro: le autorità, i rappresentanti istituzionali, i politici, i condannati (anche per mafie) che si presentano in prima fila e prendono pure la parola con tono solenne. Le frasi sono sempre le stesse.
Le parole, svuotate da ogni significato:
La mafia si combatte con la cultura e la legalità.
La memoria è un dovere civile.
I giovani sono il nostro futuro e devono essere educati alla legalità.
Siamo qui per rendere omaggio a chi ha sacrificato la propria vita per il bene dello Stato.
E intanto, fuori dai convegni, lo stesso Stato chiude gli occhi su appalti in odore di mafia, taglia i fondi alla scuola pubblica, smonta la legislazione antimafia, cancella la parola “mafia” dalle sue agende politiche, promuove leggi che ostacolano le indagini, e coccola e candida soggetti impresentabili.
La legalità si è trasformata in un brand da esibire, un’etichetta da appiccicare su ogni evento, ogni iniziativa, ogni convegno. Dietro le parole, c’è il vuoto.
Le solite cazzate ripetute ogni volta.
C’è una politica che ha paura dei fatti, che si nasconde dietro le commemorazioni per non affrontare le responsabilità del presente.
Chi ha il coraggio di dire la verità? Che la mafia non è solo coppole e lupare. Che vive nei colletti bianchi, negli uffici pubblici, nelle imprese che vincono le gare, nei palazzi del potere. Chi parla di Massoneria deviata? Di Masso-mafie?
E allora eccoli, nei convegni, con le loro facciacce (simili al loro deretano) a parlare di Peppino Impastato. A citare Falcone e Borsellino, dopo aver votato leggi che limitano l’uso delle intercettazioni. A commemorare Pio La Torre, senza avere il coraggio di introdurre il reato di autoriciclaggio o toccare i patrimoni mafiosi.
La verità è che questa antimafia cerimoniale è una maschera. Serve a lavarsi la coscienza, a blindare il potere, a evitare domande scomode. È una legalità di facciata, confezionata per i comunicati stampa, non per cambiare le cose.
E mentre parlano di “fare rete”, “promuovere la cultura della legalità”, “non lasciare soli i familiari delle vittime”, lo fanno circondati da chi – in molti casi – quella solitudine l’ha creata. Lo fanno ignorando chi chiede verità e riceve in cambio solo porte chiuse e indifferenza istituzionale.
Finché continueremo a commemorare senza agire, a parlare senza proteggere, a celebrare senza scegliere, l’antimafia sarà solo una recita. E la parola “legalità” – quella vera – continuerà a morire. Ogni giorno. In silenzio.
Mentre le istituzioni si affollano sulle passerelle delle commemorazioni, tra frasi fatte e dichiarazioni di circostanza, c’è chi la mafia l’ha combattuta davvero ed è stato abbandonato: i testimoni di giustizia.
Nel teatro della legalità da vetrina, si celebrano i morti ma si ignorano i vivi. La Commissione parlamentare antimafia, che dovrebbe ascoltarli e tutelarli, li ignora sistematicamente, preferendo le audizioni comode e i dossier già filtrati.
Così la memoria diventa ipocrisia, e lo Stato che si commuove in pubblico è lo stesso che scarica in privato chi ha avuto il coraggio di parlare.
Se davvero vogliamo onorare le vittime, iniziamo a proteggere chi resiste oggi.
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